Wolverhampton Wanderers Football Club
Anno di fondazione: 1877
Nickname: the Wolves
Stadio: Molineux, WolverhamptonCapacità: 31.700
Chissà cosa avrà pensato Billy Wright quel giorno, quel dannato giorno. 24 Novembre 1986, FA Cup. Siamo al terzo replay perchè due non erano bastati per decidere il vincitore. Da una parte il glorioso Wolverhampton Wanderers, caduto in disgrazia e da qualche mese in Fourth Division, dall’altra il Chorley, piccolo club di una cittadina del Lancashire. Sulla carta, Fourth Division o no, non ci sarebbe storia. Ma quel dannato giorno vinceranno quelli del Lancashire 3-0 in una partita che diventerà e resterà per sempre il punto più basso nella storia dei Wolves. Out of darkness cometh light, recita il motto cittadino. Dalle tenebre, la luce. Dopotutto la luce arrivò anche in quel caso, merito soprattutto di quel Graham Turner che sedeva già in panchina a Chorley e che risolleverà le sorti del club, aiutato da un ragazzotto locale col vizio del goal. Ci arriveremo. Ma ci sembrava giusto partire da qui, dal punto più basso. In modo che il resto della storia sembrerà ancora più grandioso di quel che in effetti è già, perchè il Wolverhampton Wanderers è tra le dieci squadre più importanti d’Albione, in un Paese che ha 92 squadre professionistiche di cui il 90% con un passato quantomeno da rispettare, se non da venerare in alcuni casi. Mica poco. La classica nobile decaduta, per dirla con termine usato e abusato. No, i Wolves con la Fourth Division non c’entravano nulla, eppure vi erano finiti e se questo è the Beautiful Game bisogna rispettarne le decisioni, anche a malincuore.
Qui il calcio arrivò prima che altrove. Proletariato urbano, a due passi da Birmingham, e poi the Black Country, la terra nera, nera come il carbone e il fumo delle fabbriche, nera come le facciate degli edifici che quel fumo se lo vedevano sputato in faccia, nera come la pelle di chi ha passato una vita in miniera. Gente tosta dall’animo nobile. Non furono però i lavoratori di un’azienda a fondare il club, nè l’iniziativa di un lungimirante imprenditore. L’atto che diede vita al club è uno dei più romantici del calcio inglese. Macchina del tempo fino al 1877. Una classe di alunni della St Luke’s Church School aveva appena concluso l’anno con eccellenti voti. Meritavano un regalo pensò il preside, tal Harry Barcroft, che aveva sentito parlare di un passatempo divertente che si giocava con i piedi, si procurò un pallone e lo regalò ai suoi alunni; il tutto con lo zampino di John Baynton e John Brodie, che poi furono coloro che fondarono la società. Tutto cominciò da lì. Sì perchè nel giro di due anni la squadra divenne ben più che una semplice rappresentativa scolastica, ed era pronta alla fusione con un altro team locale, dedito anche all’arte del cricket oltre che a quella del football. Si chiamava Blakenhall Wanderers, e porterà in dote parte del suo nome. Non lo fece invece il St Luke’s, dove evidentemente intuirono che si stava scrivendo la storia e optarono per l’estinzione del nome a vantaggio di quello della città intera: Wolverhampton Wanderers. Maglie bianco-blu, poi bianco-rosse (o rosa, a seconda delle descrizioni dell’epoca) per non confondersi con i vicini di casa del West Bromwich Albion. Diventeranno acerrimi rivali, ma questa è una storia che meriterebbe di essere raccontata a parte.
Una serie di impianti da gioco, come si conveniva all’epoca, quando il calcio si stava sì sviluppando ma era lontano dall’essere una priorità. Era, il più delle volte, fonte di reddito per il proprietario di turno del terreno che lo affittava alla squadra a cifre non sempre abbordabili. I Wolves per rendere parzialmente omaggio al Wanderers presente nel nome vagabondarono fino al 1888 (Old Windmill Field, Dudley Road), anno in cui giunse in sede la lettera in cui tal William McGregor invitava il club ad una riunione in cui si sarebbe discusso della creazione di un campionato. Quel campionato prenderà il nome di Football League e a quel punto a Wolverhampton capirono di dover indossare l’abito da cerimonia per l’occasione. Si trasferirono quindi in un parco, ampio e accogliente, in cui disputavano già alcune partite: Molineux. Era il 1889. La maglia nel frattempo subirà un ulteriore cambiamento, quando la lega comunicò alle squadre che dovevano registrare i loro colori. Essendo il bianco-rosso/rosa troppo simile al Sunderland, si optò per l’arancio-blu, per fortuna per una sola stagione perchè poi qualcuno ebbe l’intuizione. E l’intuizione venne dalla croce dorata al centro dello stemma cittadino, la croce di Edgar dei Sassoni fratello di quella Lady Wulfrun fondatrice della città. Oro, gold insomma. A cui venne aggiunto il black, perchè siamo in piena Black Country ed il colore più rappresentativo, da queste parti, era il nero. Gold & Black. Vinceranno subito una FA Cup con le nuove divise: 1893, dopo esserci andati vicini nel 1889. E ne vinceranno un’altra nel 1908 mentre giocavano in Second Division, chiarendo a tutti il concetto che i discendenti della St Luke’s facevano sul serio.
Chissà però se Barcroft, Bayton e Brodie immaginarono mai nelle fredde sere della Wolverhampton di fine ‘800 che un giorno quella squadra avrebbe reso fiera una Nazione intera. Una Nazione ferita nell’orgoglio, e se qualcuno conosce un inglese sa quanto siano un popolo orgoglioso, specie per quanto concerne le loro tradizioni e il calcio è una di queste, avendolo fino a prova contraria inventato loro. Quegli inglesi che rifiutarono la partecipazione ai primi Mondiali considerando quasi un affronto il fatto di mettersi in competizione con dei novellini avevano un disperato bisogno, negli anni ’50, di rialzare la testa in ambito calcistico. Troppe delusioni, specie dal giorno in cui si accorsero che il pallone sapevano come usarlo anche al di là della Manica, perfino dell’Oceano; figuriamoci poi quando l’Ungheria, nazione che quando il calcio fu inventato nemmeno esisteva, ne rifilò sei ai leoni a Wembley, e poi sette a Budapest. Prima di Bobby Moore, Geoff Hurst e gli altri eroi del 1966 ci penseranno i Wolves a regalare quello scatto d’orgoglio necessario a un Paese. E’ la vicenda che porterà alla creazione della Coppa dei Campioni. A Wolverhampton erano già giunte diverse squadre europee (e non) per una serie di amichevoli: tutte sconfitte da Billy Wright e compagni. Real Madrid, Valencia, Racing Club di Avellaneda. Tutte. Ma una sera arrivò l’Honved di Puskas e degli altri “magici magiari”, ovvero sei/undicesimi della Nazionale, la BBC mandò le telecamere e a Wolverhampton la sensazione di stare vergando pagine di storia a qualcuno deve essere venuta. L’Inghilterra intera puntò gli occhi sul Molineux, giusto in tempo per vedere i black & gold rimontare due goal e vincere 3-2 nel pantano creato ad arte da Cullis. “Champions of the World”, sentenziò la stampa inglese la mattina seguente. Eccolo lo scatto d’orgoglio. La sconfitta di Wembley era vendicata. L’Equipe per mano del direttore Hanot ebbe da ridire (rivalità mai sopita) soprattutto perchè, e questo fu il motivo principale, i Wolves giocarono sempre e solo in casa. Ne seguirà una disputa che porterà come detto alla nascita della Coppa dei Campioni. Ma quella sera gli inglesi si sentirono nuovamente portatori del Sacro Verbo del Football. Thank you, Wolves. Per la gioia di Barcroft, Bayton e Brodie.
Era una squadra meravigliosa, quella. The team of the fifties. Gli anni ’50 li dominarono, anzi cominciarono a farlo nel 1949 per smettere soltanto nel 1960. Più di un decennio, a ben vedere. Tre titoli nazionali, due secondi posti e due FA Cup poste simbolicamente a inizio e fine ciclo, le amichevoli di prestigio già ricordate. Solo che non abbiamo ricordato che furono giocate spesso alla luce dei riflettori, the Floodlights Friendlies, uno dei primi club a introdurre l’illuminazione negli stadi e a sfruttarla con lungimiranza. In panchina un ex giocatore del club, Stan Cullis. E poi i giocatori. Su tutti William Ambrose Wright detto Billy, una carriera intera in black & gold e con la maglia della Nazionale di cui fu 90 volte capitano, record assoluto. Mai un’ammonizione, facile se ti chiami Gary Lineker e giochi punta, meno se ti chiami Billy Wright e fai il difensore. Era semplicemente un minuto abbondante avanti agli avversari: non aveva bisogno di scorrettezze per fermarli. In porta Bert Williams, e poi Johnny Hancocks, Jimmy Mullen, Jimmy Murray, Roy Swinbourne, Bill Slater, Ron Flowers. Riportarono a Wolverhampton la gioia di vincere, perchè dopo quelle due FA Cup a cavallo tra i secoli i Wolves inanellarono una serie di secondi posti clamorosa, che in una nazione meno razionalista avrebbero necessitato dell’intervento di esorcisti vari. Coppa persa nel 1939 contro lo sfavoritissimo Portsmouth, secondo posto nel medesimo anno e soprattutto secondo posto un anno prima, quando sarebbe bastato vincere l’ultima partita che invece persero. 1-0 per il Sunderland e titolo a Londra, sponda Arsenal. Sfiga capiti una volta, figuratevi due, eppure nel 1947 l’epilogo fu lo stesso: sconfitta contro il Liverpool e bye bye titolo che andò proprio nel Merseyside. Stan Cullis lasciò il calcio giocato dopo quella partita. Meglio far l’allenatore, e in effetti il tempo gli diede ragione, per giunta dopo soli due anni.
Ma come dicevano i romani, e credeteci avremmo usato un detto sassone in onore della fondatrice se solo ne conoscessimo uno, sic transit gloria mundi. Cullis venne licenziato nel 1964, l’anno dell’inaspettata retrocessione anche se sentori di declino erano già nell’aria. Lascerà in eredità i trofei, una stand che porta il suo nome e una statua fuori da quest’ultima, che lo raffigura con il classico cappello di moda all’epoca in mano. I Wolves ebbero comunque un ultimo sussulto di gloria. Tornati in First Division raggiunsero la finale di Coppa UEFA del 1972, dopo aver eliminato la Juventus nei quarti di finale e il Ferencvaros in semifinale. Toh, ungheresi: ma guarda te il destino! In finale persero di misura la doppia finale contro il Tottenham (1-1, 1-2) e l’apoteosi europea non sarà mai più così vicina. In realtà non lo era mai stata nemmeno in precedenza, perchè nella Coppa dei Campioni che contribuirono a fondare le avevano buscate, la prima volta dallo Shalke04, la seconda dal Barcellona ai quarti. Si tolsero lo sfizio di vincere ancora due Coppe di Lega. Idolo di quel periodo Derek Dougan, baffuto nordirlandese con il volto da cacciatore di taglie del Far West e il vizio del goal. In campo nella finale del 1974, se ne andò un anno dopo e l’ultima finale la decise un goal di Andy Gray. 1-0 al Nottingham Forest campione d’Europa. Sei anni prima di Chorley, il Wolverhampton Wanderers alzava un trofeo al cielo di Wembley. Riportate pure qua il detto latino che ha aperto il paragrafo.
Derek Dougan tornò in scena qualche anno dopo, quando fece da intermediario per l’acquisto del club da parte dei fratelli Bhatti. Chi?? In effetti la domanda se la fecero un po’ tutti. Ci mise la faccia, quella da cacciatore di taglie, e diciamo che non fu la scelta migliore nella carriera di “Doog”. Prima di nominare i Bhatti a Wolverhampton, infatti, assicuratevi che non vi siano oggetti contundenti nei paraggi, altrimenti auguri. I due rilevarono un club in difficoltà economica enorme, tant’è che un manager scozzese in rapida ascesa rifiutò la panchina anche per quel motivo. Quel manager si chiamava Alex Ferguson e al Molineux arriverà sì, ma solo da avversario anni dopo, e nemmeno così spesso. Comunque, i costi di rifacimento della Molineux Street Stand per adeguarla ai nuovi standard richiesti combinati a una congiuntura economica avversa significavano conti in rosso. E nemmeno di poco. I Bhatti, Mahmud e Mohammed da buoni sauditi quali erano, riuscirono però nell’impresa di peggiorare irrimediabilmente le cose, e al posto di una stand in rifacimento i Wolves si ritrovarono a giocare in uno stadio chiuso per metà. Una tristezza, soprattutto perchè si giocava in Fourth Division, per la prima volta nella storia del club. A dir la verità si era giocato anche in Third Division, sempre per la prima volta: back-to-back-to-back relegations. Un’impresa riuscita controvoglia solo al Bristol City pochi anni prima. Dall’Honved di Puskas al Cambridge United, che peraltro sconfisse i Wanderers 2-1 al Molineux nella partita inaugurale. In tutto ciò Bill McGarry, il manager della finale di UEFA, era stato richiamato nel 1985. Rimarrà in carica due mesi. Se ne andò proferendo la frase “I’m not going to be party to the killing of one of the finest club in the world”, che riassume al meglio il clima di quel periodo.
I Bhatti furono finalmente sbattuti a calci fuori dai confini cittadini nel 1986. Prese in mano la situazione il comune di Wolverhampton, che acquistò il Molineux e i terreni circostanti; due società, una di costruzioni e l’altra di supermercati, saldarono i debiti del club in cambio di permessi per costruire nei suddetti terreni. Speculazione edilizia, ricatto, chiamatelo come vi pare, ma fu la salvezza del club. Che, passato lo shock-Chorley, si risollevò anche sportivamente. Graham Turner, voluto dal nuovo presidente Jack Harris, come prima iniziativa bussò alla porta del WBA. Voleva un ragazzotto nativo di Tipton, Black Country ovviamente, lo stesso che abbiamo menzionato in apertura di post. Professione attaccante e di nome Stephen George Bull. I Baggies lo cedettero per sole 64.000 sterline e praticamente regalarono in quel momento agli eterni rivali quello che diventerà il giocatore più amato a Wolverhampton. Sì perchè Steve Bull è tutto da queste parti. Più degli eroi anni ’50, perchè all’epoca era facile giocare a Wolverhampton, mentre Steve dimostrò attaccamento al club in un periodo in cui sarebbe stato più facile salutare tutti e salpare verso altri lidi. E invece non lo fece, rimase sempre qui, non giocò mai, mai in First Division/Premier League con la maglia dei Wolves (vi aveva giocato due partite con i Baggies) e nonostante questo disputò tredici partite in Nazionale, perchè non devi giocare per forza in massima serie per essere considerato un campione. I goal di Bull riportarono i Wolves in seconda divisione e a Wembley, dove sconfissero il Burnley, altra nobile decaduta (abusiamo anche noi, scusate) del calcio inglese, nella finale del Football League Trophy. 80.841 spettatori quel giorno, tanto per capirci.
Ma se Steve Bull è il giocatore più amato, Sir Jack Hayward è il Presidente con la P maiuscola. Nativo di Wolverhampton, ex pilota della Royal Air Force che ereditò e consolidò gli investimenti paterni alle Bahamas, tolse le infradito nel 1990 per rilevare il suo amato club. Dalle Bahamas a Wolverhampton ci sono migliaia di km in linea d’aria e tre-quattro giri del pianeta per tutto il resto, ma Sir Jack ci mise anima, cuore e soprattutto soldi. Il Molineux attuale, uno degli stadi più belli d’Inghilterra (è in corso un’espansione che però non dovrebbe intaccarne la bellezza), è merito suo. Inaugurato nel 1993 con un’amichevole contro…la Honved, operazione-nostalgia che riportò alla memoria anni meravigliosi. Un gioiello che Hayward ha regalato alla sua città e che ha avuto l’onore, dopo anni di tentativi vani, di ospitare una partita di Premier League. Quel giorno Sir Jack Hayward si commosse, come si era già commosso nella finale di playoff al Millenium Stadium l’anno prima, e la città intera tirò un sospiro di sollievo. Il grande calcio tornava in un palcoscenico che qui sono nemmeno troppo intimamente convinti debba sempre ospitarlo. Dopo quell’unica stagione in Premier (con il culmine raggiunto con la vittoria interna sul Man Utd, qui le sfide contro le grandi sono sentite ancora come le sfide – derby a parte) Hayward cedette la proprietà del club a Steve Morgan, l’attuale proprietario. Con Mick McCarthy in panchina, campionato di Championship vinto agevolmente, il che significava il ritorno in massima serie. Glory, glory Wolverhampton, come si canta qui. E si pensava di poterlo cantare per gli anni successivi in Premier. Sbagliato. Quando sembrava che una certa stabilità fosse ormai raggiunta, è arrivato il doppio crollo che ha riportato i Wolves in terza serie, ora conosciuta come League 1. Se non altro i fratelli Bhatti non sono alla guida del club. Una terza retrocessione consecutiva dovrebbe essere scongiurata. Almeno questo.
In attesa di tempi migliori, rimane la storia, la bellezza delle maglie, del Molineux, e il simbolo, il lupo, che però non ebbe mai l’esclusiva di comparire sulle maglie. Prima toccava infatti al simbolo cittadino, specie da quando nel 1898 divenne “ufficiale”, per celebrare i cinquant’anni del borough di Wolverhampton. Ma lo si potè già ammirare sulle maglie della FA Cup 1896. Il lupo, nell’atto di saltare sopra le WW di Wolverhampton Wanderers, compare invece solo negli anni ’70. L’evoluzione poi negli anni ha portato alla stilizzazione del volto di un lupo, che è arrivato ad oggi in uno stile semplice, all’interno di un esagono, senza scritte o fronzoli. Il lupo, animale nobile, nobile come la gente di queste parti. E animale che incute timore. Come il Wolverhampton, quello che fece tremare l’Europa e rese orgogliosa una Nazione interna. Ma che soprattutto rese orgogliosa la gente del Black Country, che poi è quella che il gold & black lo aveva e lo ha nelle vene e che nella maggior parte dei casi aveva nei Wolves l’unica fonte di gioia a cospetto del resto dell’umanità. A Wolverhampton lo si percepisce bene, magari passando davanti alla statua di Billy Wright come è capitato a chi vi scrive: sì, bravi, bravissimi questi del Manchester United, o del Chelsea o dell’Arsenal, ma i nostri…beh i nostri erano meglio. Sì sente che c’è un orgoglio mai sopito nell’animo di questa gente. Champions of the world, quante squadre avrebbero battuto quella Honved? E non importa che l’attualità dica League One a Stevenage, i Wolves sono quelli che giocavano contro gli ungheresi, il Real Madrid o la Juventus e che prima o poi torneranno a giocarci. Su questo non si discute. E noi non gli facciamo certo cambiare idea, anche perchè…perchè farlo? Champions of the world. Nel cuore della gente del Black Country, lo saranno per sempre. E sinceramente, è giusto che sia così.
[Vi riproponiamo QUI il pezzo di Cristian dedicato al Molineux]