Viaggio nella Liverpool del calcio: parte seconda, Liverpool

Liverpool Football Club
Anno di fondazione: 1892
Nickname: the Reds
Stadio: Anfield, Anfield Road, Liverpool L4
Capacità: 45.362

Un appassionato di calcio inglese che parla del Liverpool Football Club è un po’ come un amante dell’arte che disquisisce di Monna Lisa; insomma, il meglio che ci sia in giro, il top-3 del calcio d’oltremanica. La bacheca più colma di trofei d’Albione (ma il Manchester United insidia il primato in un avvincente testa a testa), la storia di un movimento scritta da gente come Bill Shankly, Bob Paisley, Kenny Dalglish, Kevin Keegan, Ian Rush, fino ad arrivare a Michael Owen Pallone d’Oro e Steven Gerrard che ha alzato l’ultima Champions vinta dai Reds. E poi ancora il mito della Kop, quel muro umano che nel vecchio Anfield soprattutto intimoriva chiunque vi si avvicinasse, il “you’ll never walk alone” prima del fischio d’inizio, con i brividi che scorrono lungo la schiena, la tragedia di Hillsborough con cui ancora oggi il calcio inglese deve fare i conti (ed emergono sempre novità in quell’inchiesta) e che cambiò la concezione stessa di andare allo stadio, e dall’altro lato la tristissima notte dell’Heysel, con gli hooligans del Liverpool protagonisti e la conseguente esclusione per anni delle squadre inglesi dalle competizioni europee. Tutto ciò, e molto altro, è il Liverpool Football Club; per cui, con una certa dose di pelle d’oca, superiamo i Shankly Gates e entriamo nel mondo Reds.

La fondazione del Liverpool, l’abbiamo visto, si intreccia irrimediabilmente con l’Everton, a quel tempo già ai vertici (un titolo in bacheca). Ricapitoliamo. John Houlding, businessman e politico, era diventato proprietario di Anfield Road, lo stadio utilizzato proprio dall’Everton, che pagava l’affitto a Houlding; quando questi aumentò la tariffa annua, le proteste che ne seguirono all’interno del club (Houlding venne accusato di voler far soldi a danno dell’Everton) portarono l’Everton lontano dall’impianto, verso quel Goodison Park che ancora oggi è lo stadio dei Toffees. Era il 1892. Houlding si trovò così con uno stadio di sua proprietà, ma senza una squadra che vi giocasse, un po’ come capitato a Gus Mears con Stamford Bridge; e come Mears, che fondò il Chelsea, Houlding con il socio d’affari John Orrell decise di creare il proprio club. Inizialmente il nome della società fu Everton FC and Athletic Grounds, o Everton Athletic, ma per fortuna diciamo noi oggi, abituati alla bella rivalità e al dualismo tra le due società, il Football Council rifiutò la denominazione, e Houlding ripiegò per un forse più banale, ma sicuramente vedendola col senno di poi azzeccatissimo Liverpool Football Club. Era il 15 Marzo 1892, l’Everton stava finendo la sua ultima stagione ad Anfield prima del trasferimento che avvenne effettivamente nell’estate successiva, estate che vide la società di Houlding riconosciuta ufficialmente dall’establishment del calcio inglese. Iniziava in quel momento la storia del Liverpool.

Siccome in ‘sta benedetta squadra qualcuno poi avrebbe dovuto giocarci, cosa non semplice visto che fino al giorno prima non esisteva nemmeno, la squadra, venne in fretta e furia organizzata una spedizione oltre il confine con la Scozia, una sorta di ratto delle Sabine calcistico da cui John McKenna, precedentemente nominato director of football, tornò con tredici calciatori professionisti reclutati, quasi tutti sinistramente inclini al cognome che iniziava col “Mc” da buoni scozzesi: quella squadra passerà alla storia come “the team of the Macs“. Esordio contro il Rotherham Town, e involontariamente si scrisse giù un piccolo pezzo di storia: il Liverpool fu la prima squadra inglese a schierare un undici che non comprendesse nemmeno un inglese, ovviamente ciò dovuto all’operazione del buon McKenna vista sopra. 7-1 il risultato. Houlding provò subito ad entrare in Football League, ma la richiesta fu respinta e il Liverpool iniziò giocoforza la sua scalata al tetto d’Europa dalla Lancashire League, dove all’esordio i “Macs” distrussero per 8-0 l’Higher Walton. La maglia era a quel tempo bianca e azzurra: solo nel 1896 sarebbe stato introdotto il leggendario rosso. A fine stagione, nella Liverpool Senior Cup, il Liverpool sconfisse per 1-0 l’Everton in quello che resta il primo Merseyside derby della storia, e fu inoltre ammesso alla Football League, di cui entrò a far parte partendo dalla Second Division. Una stagione di transizione in seconda serie, terminata al primo posto e da imbattuti, e fu subito First Division.

La vita in First non fu facile, e dopo appena una stagione il Liverpool retrocesse, trovandosi nuovamente in Second. Il problema principale stava nella difficoltà di far breccia nel cuore della gente di Liverpool, con da un lato l’Everton che, con quattordici anni di vita in più alle spalle, aveva ormai conquistato l’egemonia cittadina, dall’altro la riluttanza degli abitanti della città di tifare per una squadra piena zeppa di scots, che poco avevano a che fare con la città stessa. Urgeva una svolta, e l’immediata promozione aiutò notevolmente in tal senso; e nel successivo campionato, il quinto posto finale poneva il Liverpool davanti all’Everton per la prima volta nella storia. A questo punto la svolta si fece davvero concreta; arrivò dal Sunderland il manager Tom Watson, che nel Tyne & Wear aveva portato la bellezza di tre titoli di First Division, e nello stesso anno (1896) i colori del club vennero cambiati dal bianco-azzurro al rosso, colore della città di Liverpool: il legame con la comunità, che a parte il nome mancava a una squadra creata dal nulla da un businessman e riempita di scozzesi, si fece così forte, ancor di più quando nel 1901 il Liver bird, l’uccello simbolo della città (sulla specie si dibatte da decenni, prendiamo buona la versione che si tratti di un cormorano), venne adottato dal club come crest (mentre l’Everton lo adotterà fino agli anni ’30 nell’oggettistica del club, come ad esempio le medaglie, per poi passare alla Prince Rupert’s Tower come visto). Con queste premesse, magari poco importanti sul piano del calcio strettamente connesso al campo di gioco ma fondamentali per l’immagine e il successo del club, nel 1900/01 i Reds vinsero il loro primo titolo di una lunga serie, e a questo punto poco importava se il capitano di quella squadra fosse ancora uno scozzese (Alex Raisbeck). E la retrocessione di due stagioni dopo fu solo un piccolo incidente di percorso, visto che, tornati prontamente in massima serie, gli uomini di Watson vinsero nuovamente il campionato 1905/06. In quello stesso anno venne costruita una nuova stand, che forse avrebbe potuto chiamarsi Walton Breck Road End se ad Ernest Edwards, redattore dello sport per il Liverpool Daily News e il Liverpool Echo, non fosse venuta l’idea di dedicarla alla memoria dei caduti nella guerra boera, e in special modo sulla collina denominata Spion Kop. Molti di quei 300 cadutii appartenevano al reggimento Lancashire ed erano originari di Liverpool. Nasceva così la Kop, uno dei settori di stadio più famosi al Mondo.

Watson rimarrà manager del Liverpool fino al 1915, in tempo per disputare la prima finale di FA Cup nella storia dei Reds, giocata nel 1914 al Crystal Palace di Londra e persa contro il Burnley (0-1) sotto gli occhi di re Giorgio V. Il 1915 segna anche una pagina triste, con il primo scandalo riguardante una partita combinata, Manchester United-Liverpool (che ironia della sorte diventeranno rivali acerrime) e che portò alla squalifica di quattro giocatori Reds (Jackie Sheldon, Tom Miller, Bob Pursell e Thomas Fairfoul), squalifica a vita che fu poi annullata nel 1919 per essersi distinti al servizio della Patria durante la guerra (durante la quale morì uno dei giocatori coinvolti sponda United). Il primo dopoguerra fu nuovamente un periodo di successi, con il nuovo manager David Ashworth in panchina che portò i Reds ai back-to-back titles del 1921/22 e 1922/23 (anche se nel secondo caso non terminò la stagione). Nella prima occasione il Liverpool vinse comodamente, staccando di sei punti il Tottenham con la coppia goal Harry Chambers e Dick Forshaw in gran spolvero (21 e 20 goal rispettivamente); nella stagione seguente Ashworth a Febbraio fece un clamoroso passo indietro per tornare al suo club originario, l’Oldham Athletic: clamoroso perchè, mentre il Liverpool era in lotta per il titolo, i Latics lottavano…sul fondo della classifica, retrocedendo poi. Per fortuna dei Reds la squadra non risentì più di tanto della partenza del manager e concluse nuovamente con sei punti sulla seconda, in questo caso il Sunderland. In campo in entrambe le stagioni Elisha Scott, il portiere e il giocatore più fedele di sempre alla causa del Liverpool: vi giocò dal 1912 al 1915 (durante la Guerra giocò in Irlanda del Nord) e poi dal 1916 al 1934, e leggendari sono i suoi incontri con Dixie Dean nei derby, alcuni dei quali sfiorano il mito.

Fino alla Seconda Guerra Mondiale, però, non successe nient’altro di significativo. Stagioni di metà classifica, il punto più alto un quarto posto, il più basso il diciannovesimo, i goal dell’implacabile Gordon Hodgson, e l’arrivo nel 1936 come manager di George Kay, che nel 1939 porterà ad Anfield un giovane difensore del Bishop Auckland, Robert “Bob” Paisley. La guerra interruppe questo periodo piuttosto avaro di successi per i Reds. Alla ripresa delle competizioni il Liverpool di Kay però si aggiudicò il primo titolo del dopoguerra, quello del 1946/47 che vide tra l’altro una serrata lotta al vertice, con Liverpool, Manchester United, Wolverhampton e Stoke City in gioco per la vittoria finale: la vittoria all’ultima giornata del Liverpool al Molineux contro i Wolves, parallelamente alla sconfitta per 2-1 dello Stoke City in quel di Sheffield (United), mise nuovamente i Reds della coppia goal Jack Balmer e Albert Stubbins sul trono del calcio inglese. Ma fu un episodio, e quasi un canto del cigno che effettivamente arrivò nel 1950 con la sconfitta in finale di FA Cup contro l’Arsenal: anni bui erano alle porte, ricordati in positivo solo per il record di goal in campionato di Roger Hunt. Kay si ritirò nel 1951 e venne sostituito da Don Welsh, una FA Cup col Charlton e un triste destino: diventerà il primo allenatore licenziato nella storia del Liverpool. Come arrivò a questo punto? Beh, innanzittutto ebbe la sfortuna di ereditare una squadra agli sgoccioli, che necessitava di un rinnovamento mai fatto, e che tristemente retrocesse nel 1953/54; ma soprattutto, non riuscì mai a riportare il Liverpool in First Division, cosa che pagò a caro prezzo nel 1956 con il licenziamento. Il suo sostituto, Phil Taylor, seguì le orme di Welsh, passando direttamente dalla panchina al libro nero del Liverpool quando la squadra da lui allenata venne estromessa dall’FA Cup 1959 per mano del Worcester City, forse la sconfitta più umiliante nella storia dei Reds se si tiene conto che il Worcester City era club di non-league. Con la squadra stazionaria in Division Two, nel novembre del 1959 Taylor si dimise; per sostituirlo, dall’Huddersfield Town arrivò ad Anfield, con la faccia di chi sapeva che avrebbe scritto la storia, William Shankly. Per tutti, Bill.

He made the people happy

Con Bill Shankly il Liverpool, da squadra con una buona storia alle spalle, un bello stadio e poco più, divenne leggenda; perchè se è vero che gli allori europei più importanti li vincerà Paisley, le basi perchè tutto ciò fosse possibile le gettò Shankly. Siccome detestiamo le ripetizioni, di Shankly abbiamo già parlato, uno dei primi post in assoluto di questo blog, nato ad inizio 2012, post che trovate QUI. E’ però giusto ricapitolare cosa Shankly fece per il Liverpool e gli allori che portò ad Anfield Road. Innazitutto la preparazione delle partite, dagli allenamenti al celebre Boot Room, la stanza in cui Shankly e i suoi collaboratori (tra cui Bob Paisley) si riunivano per discutere di tattica, di avversari etc. E poi il rapporto con i tifosi, la totale empatia che si creò tra manager e stadio, tant’è che il celebre “this is Anfield” che ancora oggi accoglie i giocatori che entrano in campo fu voluto da Bill, perchè quello sarebbe diventato il campo di battaglia dei suoi Reds e nessuno avrebbe potuto più pensare di venirvi a fare una salutare passeggiata. Se Houlding fondò il Liverpool, Shankly lo creò, senza paura di esagerare nell’affermare ciò, anche perchè, dovremmo aver paura di esagerare quando si parla di uno dei cinque? dieci? allenatori più grandi di sempre nella storia del calcio inglese (e non solo)? No. Un articolo del Guerino su Shankly di qualche anno fa titolava “la Kop sei tu”, titolo che non ci è piaciuto molto ma che forse rappresenta sinteticamente al meglio il concetto che Anfield=Shankly, e viceversa; lo stesso Shankly dichiarerà “Liverpool was made for me and I was made for Liverpool”. Una presenza, quella di Shankly, talmente ingombrante che quando si ritirò gli venne vietato l’ingresso ad Anfield e a Melwood, il centro d’allenamento, perchè per tutti il capo era ancora lui e non Paisley, “Bob”, nel frattempo divenuto manager.

Paisley e Shankly

Ricapitoliamo brevemente. Shankly riportò il Liverpool in First Division nel 1961/62, e da lì in avanti non solo i Reds non retrocederanno mai più, ma non scenderanno oltre l’ottavo posto in classifica (record negativo eguagliato la stagione scorsa). Shankly non si limitò ovviamente a ciò, abilissimo peraltro a costruire due squadre: quando la squadra dei successi degli anni ’60 intraprese il viale del tramonto, il manager intuì che necessitava di un rinnovamente e costruì con altrettanta sagacia il team degli anni ’70 e dei successi europei. Portò ad Anfield tre titoli (1963/64, 1965/66, 1972/73), due FA Cup (1965 e 1974), una Coppa UEFA (1973), tre Charity Shield (1964, 1966, 1974), qualcosa di eccezionale per un club che fino a quel momento aveva in bacheca cinque titoli d’Inghilterra e stop. Vale la pena nominare qualche giocatore dell’era Shankly, da Ian St John a Kevin Keegan, da Ron Yeats a John Toshack, da Ian Callaghan a Emlyn Hughes. Quando nel 1974 annunciò il ritiro il mondo Reds fu talmente scioccato che i dipendenti di una fabbrica arrivarono persino a minacciare lo sciopero (!). Se non è leggenda questa…per sostituire Shankly si decise, con grande lungimiranza, di affidarsi a un suo collaboratore, nonchè ex giocatore del club: Paisley, come detto, fidatissimo uomo di Shankly (“Bob and I never had any rows. We didn’t have any time for that. We had to plan where we were going to keep all the cups we won”). Paisley non vinse nemmeno un trofeo nel 1974/75, la sua prima stagione alla guida della squadra: il più classico degli incidenti di percorso, perchè per i successivi nove anni mise in bacheca almeno un alloro a stagione.

Keegan

La stagione 1975/76, di cui abbiamo appena parlato dal punto di vista del QPR secondo classificato, vide i Reds trionfare per la prima volta sotto la guida di Paisley, e fu il preludio al magnifico back-to-back in Coppa dei Campioni, il 3-1 al Borussia Moenchengladbach del 1977 e l’1-0 al Brugge del 1978, che segnarono anche il passaggio di testimone tra Kevin Keegan (che giocò l’ultima partita con i Reds proprio nella finale del ’77) e il suo sostituto, Kenny Dalglish, autore della rete contro i belgi e futuro manager del club. Arrivò un ulteriore trionfo europeo, nel 1983 contro il Real Madrid, oltre alla Coppa UEFA del 1976 che non avevamo ancora citato, vinta sempre contro il Club Brugge. Entro i confini del regno, il Liverpool di Paisley vinse sei titoli in nove stagioni (Mind you, I’ve been here during the bad times too – one year we came second”, forse la più famosa citazione di Paisley), tre Coppe di Lega (1981, 1982 e 1983), cinque Charity Shield (1976, 1977, 1979, 1980, 1982) ma nessuna FA Cup (finalisti nel 1977, sconfitta contro il Manchester United), se proprio vogliamo cercare il pelo nell’uovo l’unico neo nel palmares di Paisley; comunque, sottigliezze. Le nostre storie sono belle da narrare (e speriamo anche da leggere), ma la necessità di comprimere gli avvenimenti ci porta inevitabilmente a rasentare la superficialità, e nel caso del Liverpool è un peccato non poter narrarne le gesta in modo esaustivo: come fatto con Shankly, in futuro torneremo a parlare in modo specifico di alcune annate o epoche dei Reds. Citiamo solo alcuni giocatori dell’era Paisley, lanciati dal manager o ereditati da Shankly, ma che segnarono comunque il suo periodo da manager: Kenny Dalglish, Graeme Souness, Alan Hansen, Ronnie Whelan, Alan Kennedy, Ian Rush, Ray Clemence, Phil Neal, Phil Thompson, Terry McDermott. E così via. Paisley si ritirò nel 1983. Ancora una volta venne nominato manager un membro del “boot room” di Shankly, così come lo era stato Paisley: Joe Fagan.

Se nella sua prima stagione Paisley non vinse nulla, Fagan rischiò di entrare dritto nel mito: vinse Coppa di Lega, campionato e Coppa dei Campioni, nella finale dell’Olimpico contro la Roma, una sorta di treble, che non viene considerato tale perchè la coppa Nazionale è e resterà solo la FA, ma che comunque è un inizio discreto. La stagione 1984/85 non fu tuttavia altrettanto fortunata: semifinale di FA Cup, secondo posto in campionato dietro l’Everton e soprattutto il dramma dell’Heysel, la morte di 39 tifosi della Juventus a causa degli hooligans e una partita, che perse molto significato dopo quella tragedia, comunque persa per 1-0. Fagan si ritirò poco dopo l’Heysel. Al suo posto, Kenny Dalglish, che passò direttamente dal campo alla panchina (inizialmente ricoprendo entrambi i ruoli) e nella sua prima stagione conquistò il double campionato-FA Cup, che nell’epoca dell’esclusione dalle competizioni europee era quanto di meglio si potesse ottenere. Come accaduto a Fagan, anche la seconda stagione di Dalglish si rivelò avara di trofei, e il campionato andò all’Everton, con i Reds al secondo posto. Ian Rush fece anche la sua breve apparizione alla Juventus, prima di tornare di corsa ai pub di Liverpool e proferire l’immortale ‘I couldn’t settle in Italy – it was like living in a foreign country‘. E a vincere. Il Liverpool di Dalglish vinse infatti ancora il titolo 1987/88 (senza Rush), la Charity Shield del 1988, l’FA Cup e Charity Shield 1989, il titolo 1989/1990, la Charity Shield 1990. Nel mezzo, due famosissime sconfitte: quella in FA Cup contro il Wimbledon nel 1988 e quella in campionato, nella stagione 1988/89, superati sul filo di lana dall’Arsenal, con l’ultima decisiva partita persa per 0-2 ad Anfield con i salti di gioia di Michael Thomas all’ultimo minuto. 1988/89, anno che vide la vittoria in FA Cup, competizione la cui semifinale tra Liverpool e Nottingham Forest era in programma all’Hillsborough di Sheffield.

Meteora a Torino, leggenda a Liverpool: Ian Rush

Hillsborough, 14 Aprile 1989. 94 vittime, poi 95, infine dopo quattro anni 96, quando un uomo rimasto in coma morì. 96 tifosi del Liverpool schiacciati nella Leppings Lane di Hillsborough, la fine del calcio inglese delle folle oceaniche, il rapporto Taylor, le menzogne della polizia dello Yorkshire che finalmente, negli ultimi tempi, stanno venendo a galla, per rendere almeno giustizia a quelle 96 persone morte seguendo la loro squadra del cuore, così come successo anni prima ai tifosi della Juventus. L’Hillsborough Memorial di Anfield è luogo in cui andare a rendere omaggio a quei tifosi, magari lasciando un mazzo di fiori, o la sciarpa della propria squadra del cuore, non importano i colori, ne vale la pena. La finale di FA Cup. giocata poche settimane dopo, vide la vittoria per 3-2 sull’Everton ai supplementari, un’emozionante minuto di silenzio e un You’ll Never Walk Alone da far tremare tutte le ossa del corpo. Il titolo conquistato la stagione successiva, nel 1989/90, è incredibilmente l’ultimo per i Reds, che da allora resteranno all’asciutto, bloccati a quota diciotto e recentemente superati dal Manchester United. Dalglish si dimise, tra lo stupore di tutti, a stagione 1990/91 in corso, adducendo come ragione la troppa e ormai insostenibile pressione. Andò ad allenare il Blackburn Rovers, con cui vincerà un titolo incredibile grazie alle prodezze di Alan Shearer. Vale la pena ricordare qualche giocatore di quel Liverpool targato Dalglish, oltre ai già citati Rush e Hansen: Peter Bearsley, Steve Nicol, Ray Houghton, Bruce Grobbelaar, John Barnes. Il testimone ad Anfield venne raccolto da Graeme Souness, durante il cui periodo alla guida del club il Liverpool vinse una FA Cup, nel 1992, con il giovane Steve McManaman nominato man of the match. Souness tuttavia in campionato non riuscì ad andare oltre due sesti posti e si dimise nel 1994, rimpiazzato da Roy Evans, veterano del boot room che come ormai avrete capito influenzò tantissimo la storia del Liverpool.

Hillsborough Memorial

Evans vinse una misera League Cup nel 1995, pochissimo per un club, per QUEL club. In campionato ottenne buoni piazzamenti, e per un certo periodo della stagione 1996/97 il Liverpool si trovò in testa alla classifica, salvo poi finire quarto. Quella squadra diventò però famosa tra i media e i tifosi come la squadra degli Spice Boys, in un’epoca dominata dalle Spice Girls: gli Spice Boys, termine coniato dal Mirror, del Liverpool (Fowler, Redknapp, McManaman, James su tutti) divennero famosi per la vita fuori dal campo, fatta di donne e divertimenti vari, e furono i pionieri di un’era intera di spice boys, termine che venne infatti usato di lì in avanti per tutti quei casi di calciatori-star tipici del nuovo secolo. Evans lasciò nel Novembre del 1998, dopo che gli fu affiancato il francese Gerard Houllier in una sorta di duomvirato; facendo sua e adattando la massima di Churchill secondo cui la democrazia funziona quando a decidere sono in due e uno è malato, Evans fece un passo indietro ritenendo che la situazione fosse solo portatrice di confusione; Houllier diventò quindi manager in solitaria, restandolo fino al 2004. Raccolse i frutti del vivaio che stavano sbocciando, oltre agli ormai affermati Robbie Fowler, McManaman (che tuttavia lasciò presto, direzione Real Madrid), e i giovani Michael Owen, Jamie Carragher, Steven Gerrard, a cui aggiunse pian piano i vari Babbel, Hyypia che diventerà capitano dei Reds.

Michael Owen

Houllier ci mise tre anni, ma riportò il Liverpool in alto, più di quanto i suoi due predecessori fecero. Terzo posto nel 2000/01, la stagione delle tre coppe: Coppa di Lega, FA Cup (2-1 all’Arsenal con doppietta nel finale di Owen, che quell’anno si aggiudicherà il Pallone d’Oro) e Coppa UEFA (vinta con un memorabile 5-4 contro i baschi del Deportivo Alaves). Quel 2001 si concluse in modo fantastico con la vittorie delle due supercoppe, diretta conseguenza della stagione precedente: il Charity Shield e la Supercoppa Europea. Un secondo posto nel 2001/02 e la vittoria della Coppa di Lega 2003 furono gli ultimi due sussulti di Gerard Houllier, che nonostante i migliori risultati dall’era Dalglish fu licenziato a fine 2004. Quel titolo mancava troppo ai tifosi, e la crescente insoddisfazione portò il francese lontano da Anfield Road; venne sostituito da Rafael Benitez, che col Valencia aveva stupito la Spagna prima e l’Europa poi. In campionato le cose non migliorarono, anzi peggiorarono perchè il quarto posto ottenuto nell’ultima stagione di Houllier divenne un quinto posto finale, ma in Coppa Campioni, divenuta nel frattempo Champions League, il Liverpool sorprese tutti, eliminando in semifinale il super-Chelsea dei rubli e di Mourinho e in finale ribaltando uno 0-3 per il Milan, strafavorito e pieno di stelle, e vincendo la coppa ai rigori. Se si osserva attentamente quella squadra, si capirà che Benitez fece un mezzo miracolo; Gerrard e Xabi Alonso unici campioni veri (Owen aveva salutato la compagnia e passato al Real Madrid) e il contorno di tanti ottimi giocatori ma non al livello di quelli che potevano schierare le avversarie. L’anno successivo, Supercoppa Europea, FA Cup e Community Shield completarono il palmares dello spagnolo, che perderà anche una finale di Champions, sempre contro il Milan.

Il resto è storia recente. Benitez, poi Roy Hodgson, poi ancora il ritorno di Kenny Dalglish e la nuova proprietà made in USA, i soldi spesi un po’ inopinatamente per i Carroll, Downing, Henderson etc., dopo averne incassati 50 milioni (di pounds) per la superstar spagnola Fernando Torres. Preferiamo dunque terminare parlando del simbolo del club. Come detto, in origine era solo il Liver bird, simbolo della città; nel 1992, per il centenario del club, venne però commissionato un nuovo stemma, che avrebbe dovuto contenere un riferimento alle Shankly Gates, con la scritta “You’ll never walk alone”. L’anno successivo vennero aggiunte le due fiamme, simbolo dell’Hillsborough Memorial in cui una fiamma rimane accesa constantemente in memoria delle 96 vittime. Questo simbolo così descritto rimane ancora oggi, anche se per questa stagione sulle maglie è tornato a campeggiare il solo Liver, in puro stile anni ’70. You’ll never walk alone, la canzone da stadio per eccellenza, dal musical Carousel agli spalti di Anfield Road, passando per un’interpretazione del 1963 di Gerry & the Pacemakers (il cui leader intonò il pezzo il giorno della finale di coppa del 1989), gruppo di Liverpool che aveva lo stesso manager e lo stesso produttore dei Beatles (Epstein e Martin). Fu proprio negli anni ’60 che la canzone cominciò a risuonare ad Anfield Road, e creare quell’atmosfera da brividi che ancora oggi colpisce chi visita lo stadio dei Reds. Stadio che, dopo ipotesi di trasferimento, verrà rinnovato, con un aumento della capienza ma senza il ventilato trasferimento che avrebbe privato il calcio mondiale di uno dei suoi templi.

Liverpool are magic“, disse Emlyn Hughes; e nonostante che non siamo tifosi del Liverpool, non ce la sentiamo proprio di dissentire.

Trofei

  • First Division: 1900–01, 1905–06, 1921–22, 1922–23, 1946–47, 1963–64, 1965–66, 1972–73, 1975–76, 1976–77, 1978–79, 1979–80, 1981–82, 1982–83, 1983–84, 1985–86, 1987–88, 1989–90
  • F.A. Cup: 1965, 1974, 1986, 1989, 1992, 2001, 2006
  • League Cup: 1981, 1982, 1983, 1984, 1995, 2001, 2003, 2012
  • Charity/Community Shield: 1964*, 1965*, 1966, 1974, 1976, 1977*, 1979, 1980, 1982, 1986*, 1988, 1989, 1990*, 2001, 2006 (* shared)
  • Coppa dei Campioni/Champions League: 1977, 1978, 1981, 1984, 2005
  • Coppa UEFA: 1973, 1976, 2001
  • Supercoppa Europea: 1977, 2001, 2005

Records

  • Maggior numero di spettatori: 61.905 v Wolverhampton Wanderers (FA Cup, 2 Febbraio 1952)
  • Maggior numero di presenze in campionato: Ian Callaghan, 640
  • Maggior numero di goal in campionato: Roger Hunt, 245

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Viaggio nella Liverpool del calcio: parte prima, Everton

Everton Football Club
Anno di fondazione: 1878
Nickname: the Toffees (the People’s club, the School of Science)
Stadio: Goodison Park, Liverpool L4
Capacità: 40.569

109 campionati di massima serie (questo è il 110), sia essa First Division o, come è diventata in seguito, Premier League, un record del calcio inglese (nessun’altra squadra raggiunge i 100). No, non lo detiene il Manchester United, l’Arsenal (che invece detiene il record di campionati consecutivi nell’elite del calcio inglese) e nemmeno il Liverpool. La città è quella, ma siamo sulla sponda blu, siamo dalle parti di Goodison Park, casa dell’Everton Football Club. L’Everton è, secondo noi, la classica squadra sottovalutata: la percezione che ne ha il semplice appassionato di calcio è quella di una squadra mediocre, che negli ultimi anni è risorta, passando dalla parte destra a quella sinistra della classifica (abbiamo a supporto di ciò fatto una sorta di test con amici non assudui frequentatori della Premier, è il risultato è sempre quello). In realtà l’Everton è una squadra tra le più nobili del calcio inglese, per il fatto di essere una delle dodici fondatrici della Football League, per il record già citato, per il fatto comunque di essere la settima squadra in Inghilterra come numero di trofei vinti, per la squadra fantastica che ha spadroneggiato negli anni ’80, etc. etc. Con queste premesse ci accingiamo dunque a partire per Goodison Park, the Grand Old Lady di cui vi parlerà Cristian, dove ci accoglie la scritta enorme “Welcome to Everton FC” e la chiesa di St Luke, posta nell’angolo tra la Goodison Road Stand e la Gwladys Street Stand, particolare unico nel panorama del calcio pro inglese.

Il distretto di Everton divenne parte della città di Liverpool nel 1835; fu proprio in quel distretto che, nel 1871, venne inaugurata la St. Domingo Methodist Church (che prendeva il nome dalla St. Domingo Road in cui era ubicata), precedentemente situata in un’altra zona della città. Nel 1878 il reverendo Ben Swift Chambers venne nominato ministro delle chiesa, e tra le sue prime idee vi fu quella di creare una squadra di cricket che potesse servire da svago per i giovani fedeli, metodisti ma non necessariamente pigri. Il cricket era uno sport estivo, per cui per i mesi invernali bisognava pensare a qualcos’altro: quel qualcosa era il football, che stava dilagando per il Paese come una benevola influenza che avrebbe cambiato la cultura inglese, europea e mondiale. Le richieste per unirsi alla squadra di calcio furono subito ben oltre le aspettative, e il nostro rev.Chambers, tra un vangelo e un Padre Nostro non avrebbe mai potuto immaginare a cosa stava per dare il là la sua idea: infatti appena un anno dopo, nel 1879, fu convocato un meeting al Queen’s Head Hotel che sancì il cambio di nome da St Domingo F.C. a Everton Football Club, con la benedizione del nostro reverendo. Il nome scelto fu un evidente tentativo di legare la squadra, fondata da una comunità ristretta (quella metodista), a una più allargata (il quartiere), e dunque di allargare ma non disperdere questo sentimento di legame. La prima partita (20 Dicembre 1879) fu giocata sullo stesso suolo dove giocava il St Domingo, Stanley Park: maglie a strisce verticali bianco-blu, eredità del team voluto dal nostro ormai famoso reverendo, e vittoria per 5-0 contro il St Peter’s

A Stanley Park l’Everton rimase fino al 1882, quando le regole sul professionismo imposero al club un impianto cintato, chiuso, qualità che non apparteneva certo a Stanley Park, suolo pubblico. E qui entra in gioco John Houlding, nella prima delle sue triplici vesti di personaggio chiave nella storia dell’Everton, del Liverpool (ne è il fondatore) e di Liverpool in quanto città (ne sarà Lord Mayor dal 1897). Con calma, vediamo di trattare il tutto. Houlding entra in gioco come proprietario dell’Anfield Hotel, in cui venne discusso il trasferimento da Stanley Park a Priory Road, terreno messo a disposizione da Mr Cruit. Qui l’Everton giocherà per due stagioni, fino al 1884 quando Cruit rescisse il contratto d’affitto a causa delle folle sempre più numerose e rumorose. Probabilmente se ne sarà pentito amaramente, comunque a noi interessa che l’Everton rimase senza casa. E qui rientra in gioco Houlding, a cui quelle folle numerose facevano gola eccome, il quale mise la cosiddetta “buona parola” con un suo amico, tal John Orrell, proprietario di un terreno che venne affittato al club per farne la sua nuova casa. Quel terreno era situato in Anfield Road e diventerà la sede di uno dei più famosi stadi del Mondo. Siccome Houlding da buon businessman fiutò immediatamente le potenzialità di quel club così in rapida ascesa dal punto di vista del seguito di tifosi, l’anno successivo comprò Anfield Road (che venne subito trasformato in stadio moderno per l’epoca, con stand coperte e capienza di 20.000 spettatori), divenendo così egli stesso l’affittuario dell’Everton, circostanza che risulterà decisiva nel trasferimento a Goodison Park e nella fondazione del Liverpool FC.

Goodison Park nel 1892

Sul campo, dopo l’esperienza del 1887 in FA Cup con un’avvincente sfida legale contro il Bolton (vittoria del Bolton 1-0, ricorso dell’Everton per uso di un giocatore non schierabile, vittoria del ricorso, tre replay e infine vittoria sul campo dell’Everton, ricorso del Bolton perchè l’Everton avrebbe pagato alcuni giocatori amatoriali e definitivo successo dei Trotters, con conseguente squalifica di un mese del club di Liverpool), nel 1888 l’Everton scrisse parte della storia del football inglese divenendo una delle magnifiche dodici, le dodici squadre fondatrici della Football League. Il primo campionato lo concluse all’ottavo posto, il secondo al secondo posto (scusate il gioco di parole). Era il 1889/1890, e stava per accadere qualcosa di importante, sul campo e fuori. La stagione 1891/92 vide infatti l’Everton trionfare per la prima volta in campionato, seconda squadra di sempre ad aggiudicarsi il titolo (i primi due erano stati vinti dal Preston North End), con Fred Geary in campo, prima vera stella ad indossare la maglia del club (sul cui colore torneremo in chiusura di post, perchè ad esempio in quella stagione era di un colore sul rosa salmone). Fu anche l’ultima stagione ad Anfield Road, che ironia della sorte fu scenario del primo trofeo…dell’Everton. Houlding come detto divenne proprietario di Anfield Road, affittandolo egli stesso al club di cui faceva parte; l’affitto però venne costantemente aumentato, fino a diventare motivo di discussione tra i membri del club, che accusavano Houlding di voler solamente lucrare sulle fortune dell’Everton. A ciò va aggiunta un’altra disputa: il già citato Orrell rimase proprietario dei terreni adiacenti, e quando questi volle costruire una strada che avrebbe tagliato in due una stand, l’Everton si trovò di fronte al ricatto di dover affittare anche i terreni di Orrell per garantire la sopravvivenza del proprio impianto. E non ultimo, Houlding era un tory, mentre l’orientamento prevalente all’interno del club, specialmente in George Mahon, fautore del trasferimento, era whig: l’antico contrasto tra conservatori e liberali (i due furono anche rivali alle elezioni), una questione di natura politica, giocò un ruolo decisivo. Ad un certo punto l’accordo fu però vicino; ma una nuova rottura avvenne riguardo alle azioni della nuova LCC (limited liability company) in cui sarebbe dovuto essere trasformato il club per acquistare i due terreni, quello di Orrell e quello di Houlding, azioni che Mahon voleva più distribuite, anche tra tifosi, mentre Houlding voleva concentrare nella board of directors per dirla con termine attuale. Mahon a quel punto opzionò l’affitto di una porzione di terreno nella parte opposta di Stanley Park, Walton all’epoca nel Lancashire, e premette perchè il club si trasferisse lì; Houlding rispose creando la Everton (poi Liverpool) FC and Athletic Grounds, tentando di scalzare l’Everton dalla sua posizione in Football League, tuttavia non riuscendoci. La linea di Mahon prevalse, e l’Everton salutò Anfield Road: vi sarebbe tornato, ma da avversario.

George Mahon

Abbiamo dedicato qualche parola in più alla questione perchè gioca un ruolo chiave nel calcio nella città di Liverpool. Le versioni comunque sono ancora oggi differenti, a seconda che si chieda a uno storico dell’Everton o del Liverpool, ma è giusto sia così (la parte Red afferma che Houlding fosse disponibile a un contratto a breve termine, mentre l’Everton si ostinasse a chiedere accordi di lunga portata). Dunque, per motivi politici, di costi, di accuse più o meno velate di voler far profitti a spese del club, l’Everton si trovò con una nuova casa, non distante in linea d’aria da Anfield Road ma dalla parte opposta di quello Stanley Park che segnerà sempre il confine tra parte Blue e Red della città. Una casa da costruire dal nulla, proprio come era stato fatto per Anfield; tuttavia ci mise poco il club a trasformare quella porzione di terreno in uno del primi stadi specificamente costruito per il calcio al Mondo. Gli venne dato il nome di Goodison Park per via della strada adiacente, Goodison Road, e lo stadio aprì ufficialmente i battenti il 2 Settembre 1892, per un’amichevole contro il Bolton Wanderers, anche se il sito ufficiale riporta come data di apertura il 24 Agosto. Spettatori? 12.000. Goodison Park fu teatro delle gesta del già citato Geary, implacabile bomber di quella squadra che raggiunse la prima finale di FA Cup nella sua storia: il 26 Marzo 1893, con Geary assente, il Wolverhampton Wanderers alzò il trofeo, sconfiggendo per 1-0 i Toffees. E qui apriamo la parentesi sul nickname. Toffee è una caramella, e un dolciume era l’Everton Mints lanciato nel 1878 dalla Barker & Dobson, un’azienda che decise di onorare in quel modo la fondazione del club. Gli Everton Mints e i toffees erano venduti da un locale negozio di dolciumi (“Mother Noblett’s toffee shop“) ai tifosi che si incamminavano verso lo stadio; secondo altre versioni, il negozio in questione era Ye Anciente Everton Toffee House. Comunque da lì nacque la tradizione dei “toffees”, con la Toffee Lady che faceva il giro di campo nel prepartita lanciando le Everton Mints ai tifosi.

La Toffee Lady che distribuisce caramelle prima della partita, un’usanza particolare e molto carina

Tornando al campo, l’Everton perse nuovamente la finale di coppa nel 1897, 2-3 contro l’Aston Villa al Crystal Palace. E bisognerà aspettare il nuovo secolo perchè si ricominciassero a mettere trofei in quella bacheca che fino a quel punto ospitava, tra i titoli importanti, solamente un titolo di campionato. Fu proprio l’FA Cup a rappresentare l’occasione di rivincita, in tutti i sensi, quando nel 1906, sempre al Crystal Palace, l’Everton alzò il trofeo sconfiggendo per 1-0 il Newcastle United; l’anno dopo la possibilità di fare il bis venne però ostacolata dallo Sheffield Wednesday, che vinse la finale per 2-1, infliggendo così ai Toffees la terza sconfitta in quattro finali disputate. Il periodo che precedette lo scoppio della guerra si concluse, tuttavia, in modo trionfale: nel 1914/15, l’ultima stagione prima della sospensione delle competizioni ufficiali, l’Everton vinse il secondo campionato della sua storia, un punto davanti all’Oldham Athletic e con 36 goal (in 35 partite) di Bobby Parker, sicura stella del club se non fosse per la Grande Guerra, che gli lasciò come ricordo un proiettile conficcato in una gamba, con effetti sulla carriera che potete ben immaginare. Ma la stella stava per apparire nel cielo blu dell’Everton. Giocava per il suo local team, il Tranmere Rovers, lui, nativo di Birkenhead (sostanzialmente di fronte a Liverpool), quando nel 1925 segnò 27 reti in 27 partite: l’Everton si rese conto di avere un asso dietro casa (e per di più fin da bambino tifoso dei Toffees) e strappò l’assegno di 3.000 sterline in direzione Prenton Park. Lui altri non è che William Ralph “Dixie” Dean, 349 goal in 399 partite con la maglia dell’Everton, una statua fuori da Goodison Park e un posto nel cuore di tutti i tifosi Toffees.

Dixie Dean nella sua prima stagione

Dean terminò la stagione 1924/25 all’Everton, segnando 2 goal in 7 presenze, dopo i già citati 27 in 27 partite con la maglia del Tranmere; seguirono due stagioni da 32 reti in 38 partite e 21 in 27. E si arrivò così alla stagione 1927/28, leggendaria e non si tratta di un abuso di terminologia in verità spesso abusata: Dean segnò in quell’anno 60 goals in 39 partite, un record ineguagliato e ineguagliabile che regalò all’Everton il titolo. Dean continuava a segnare a raffica, ed è un delitto non poter narrarne qui le gesta in modo esaustivo, eppure al termine della stagione 1929/30 l’Everton si trovò sul fondo della classifica, per una retrocessione che aveva del clamoroso, in quanto fu la prima del club. Nemmeno da dirlo, il buon “Dixie” fece fuoco e fiamme nella seconda serie, e con 39 realizzazioni riportò immediatamente i Toffees in First Division; e non fu tutto, visto che l’Everton l’anno successivo vinse nuovamente il titolo, con il nostro che bucò i portieri avversari 45 volte. Mancava al palmares di Dean l’FA Cup (il Charity Shield era stato vinto nel 1928 e nel 1932), che prontamente vinse nella finale del 1933 contro il Manchester City, la prima partita in cui i giocatori indossarono maglie con i numeri sulla schiena, il che fece di Dixie Dean il primo numero 9 nella storia dei Toffees (la curiosità sta nel fatto che l’Everton indossò i numeri dall’1 all’11, il Manchester City dal 12 al 22). Le stagioni seguenti furono stagioni di metà classifica, Dean continuò però a segnare (12-9, 38-26, 29-17, 36-24, dove il primo numero son le presenze e il secondo i goal) fino al 1937, quando lasciò i Toffees per trasferirsi al Notts County, dove non ebbe altrettanta fortuna (giocò solo 9 partite in due stagioni per i Magpies) prima di ritirarsi definitivamente. La leggenda di Dixie Dean rimarrà però per sempre parte dell’essenza dell’essere Evertonian, leggenda che acquisì quel tocco di romantica tristezza quando Dean morì, il 1 Marzo 1980, d’infarto a Goodison Park, mentre assisteva alla partita contro il Liverpool. “People ask me if that 60-goal record will ever be beaten. I think it will. But there’s only one man who’ll do it. That’s the fellow that walks on the water. I think he’s about the only one“. Unico, imbattibile, Dean.

FA Cup del 1933, quando il tour lo si faceva in carrozza

Dixie Dean è uno di quei personaggi che nello sport portano ad applicare la regola che nella cristianità vale per the fellow that walks on the water di cui sopra: c’è un before-Dean e un after-Dean nella storia dell’Everton, almeno nel periodo appena successivo al trasferimento al Notts County. E il dopo Dean fu, per l’Everton, nuovamente vittorioso, almeno nell’immediato: ancora una volta, appena prima dello scoppio di una Guerra Mondiale, l’Everton vinse il titolo (1938/39) con una squadra che tra gli altri vedeva in campo Joe Mercer, poi star nell’Arsenal, e il diciannovenne Tommy Lawton, a cui la guerra tolse i sei anni potenzialmente migliori della carriera (riprese nel dopoguerra a far faville nel Chelsea e poi nel Notts County, alle volte il destino…) altrimenti parleremmo di lui ancor più di quanto si possa fare oggi. Dicevamo che il dopo-Dean fu vittorioso nell’immediato, perchè le cose nel primo dopoguerra non andarono esattamente bene: la cessione di Mercer e Lawton, il budget sempre più risicato trascinarono l’Everton nell’inferno della seconda serie per la seconda volta nella sua storia (1950/51), e questa volta prima della promozione in First Division passarono tre lunghe stagioni. Gli anni ’50 non furono il decennio migliore nella storia dei Toffees, con la retrocessione che li segna irrimediabilmente in negativo, mentre tra le note positive non possono bastare due semifinali di FA Cup per pareggiare il conto. Ma la svolta era dietro l’angolo, e prese forma quando nel 1961 l’ex giocatore Harry Catterick venne nominato allenatore.

Se gli anni ’50 furono un periodo sostanzialmente da dimenticare, gli anni ’60 sono la golden era dell’Everton per eccellenza, insieme agli anni ’80 che vedremo tra breve. Catterick riorganizzò la squadra, specie in difesa, tanto che l’Everton nella sua prima stagione risultò la squadra meno battuta della First Division e giunse quarto, per poi la stagione successiva (1962/63) vincere nuovamente il titolo, a cui aggiunse, nel 1966, l’FA Cup, vinta in una memorabile finale contro lo Sheffield Wednesday ribaltando uno 0-2 iniziale (finì 3-2). Ma incancellabile nella memoria dei tifosi e degli appassionati fu soprattutto l’ultimo titolo vinto da Catterick, quello del 1969/70, indimenticabile perchè quella squadra (Joe Royle e la Santa Trinità versione blue, Howard Kendall – segnatevi questo nome – Alan Ball e Colin Harvey) giocava in modo spettacolare e immaginiamo senza paura di esagerare che avrebbe ricevuto applausi anche dai maestri olandesi del calcio totale, che peraltro proprio in quegli anni stava investendo senza possibilità di ritorno il mondo del football mondiale. Quel titolo esaurì però il periodo d’oro degli anni ’60, e gli anni ’70, con un altro ex giocatore in panchina, Billy Bingham, seguito poi da Gordon Lee, non furono altrettanto ricchi di successi, anche se l’Everton sfiorò in diverse occasioni il titolo, perse una finale di Coppa di Lega e perse la famosa semifinale di FA Cup del 1977 contro il Liverpool al replay, famosa perchè per il pareggio nella prima partita per 2-2 con il goal di Bryan Hamilton annullato ingiustamente e in modo clamoroso; il replay venne vinto agevolmente dai Reds per 3-0. Gordon Lee subentrò a Bingham, ma un diciannovesimo posto nel 1979/80 e un quindicesimo nel 1980/81 portarono la dirigenza a sostituirlo, con in più il Liverpool che stava offuscando in quanto a successi i Toffees. Al suo posto venne scelto Howard Kendall, ex giocatore del club e all’epoca allenatore-giocatore al Blackburn Rovers, che aveva condotto dalla Third alla Second Division; mai scelta fu più azzeccata, come si suol dire.

Colin Harvey affonda lo United

Kendall firmò i seguenti giocatori, tutti nella sua prima stagione in carica: Neville Southall, Gary Stevens, Derek Mountfield, Peter Reid, Kevin Sheedy, Trevor Steven. Più di mezza squadra, che andava ad unirsi a Kevin Ratcliffe e Graeme Sharp che già facevano parte del club. Arrivò, nel 1983, anche Andy Gray, giusto in tempo per segnare nella finale di FA Cup del 1984 (2-0 al Watford, l’altra rete fu di Sharp) e mettere fine a un’astinenza da trofei lunga quattordici anni; i Toffees disputarono anche la finale di Coppa di Lega, che però persero contro i cugini del Liverpool. In campionato l’Everton finì settimo, ma durante la stagione la scarsa forma della squadra portò qualche tifoso a chiedere la testa del manager, anche se dubitiamo che quegli stessi tifosi oggi dicano “sì, ero io”. Perchè? Perchè la stagione, 1984/85, l’Everton non solo tornò a sedersi sul trono d’Inghilterra, ma vinse la sua prima e ultima coppa europea, la Coppa delle Coppe, sconfiggendo per 3-1 in finale il Rapid Vienna, ma soprattutto dopo aver eliminato in semifinale il Bayern di Monaco con una vittoria (sempre per 3-1) a Goodison Park che è considerata una delle migliori performance di sempre da parte dei Toffees. L’Everton quella sera a Rotterdam, sede della finale, scese in campo con i seguenti undici: Southall; Stevens, Van den Hauwe, Ratcliffe, Mountfield; Steven, Reid, Bracewell, Sheedy; Sharp, Gray. Quest’ultimo, tuttavia, partì a fine stagione, per tornare all’Aston Villa: al suo posto era stato infatti acquistato un attaccante 24enne dal Leicester City, Gary Lineker.

La stagione 1985/86 sarebbe ricordata con maggior piacere dai tifosi dell’Everton se non fosse che sia il secondo posto in campionato sia la sconfitta in finale di FA Cup furono ad opera del Liverpool, lo stesso Liverpool che indirettamente (o meglio, per responsabilità dei propri hooligans) aveva causato l’esclusione di tutte le squadre inglesi dalle competizioni europee, Everton compreso. I Toffees però si rifecero nel 1987, vincendo il titolo (l’ultimo, ad oggi, della loro storia) dopo una lunga battaglia contro i rivali cittadini, ma perdendo tuttavia a fine stagione Kendall, che accettò l’offerta dei baschi dell’Athletic Club e lasciò il Merseyside direzione Bilbao. Venne sostituito dall’assistente, ed ex compagno di centrocampo, Colin Harvey, che tuttavia non replicò i successi del mentore, giungendo a una finale di FA Cup nel 1989 persa nuovamente contro il Liverpool, un Liverpool reduce peraltro dal disastro di Hillsborough in semifinale. Harvey venne licenziato nel 1990, rimpiazzato da…Kendall, che tornò così all’Everton (Harvey rimase in qualità di assistente), senza però riuscire a far rivivere quella decade magnifica che furono gli anni ’80, e lasciando mestamente nel Dicembre del 1993 con la squadra a metà classifica. Ecco, quel 1993/94: una stagione tribolata, che verrà ricordata per “the Great Escape“. Kendall venne sostituito da Mike Walker, autore del miracolo Norwich (terzo in campionato, brillante in Coppa UEFA), il cui ingaggio costò al club del Merseyside una multa di 75.000 sterline per trattative non esattamente correttissime nei confronti dei Canaries. Walker si trovò una squadra che pian piano sprofondò sull’orlo della retrocessione, fatto che sembrava inevitabile quando, nell’ultima partita della stagione, partita che l’Everton doveva vincere, il Wimbledon passò in vantaggio per 2-0 a Goodison; con i tifosi già in lacrime, i Toffees buttarono il cuore in campo e l’errore di Hans Segers, che ogni tifoso dell’Everton ringrazierà a vita, diede il 3-2 definitivo (goal di Stuart) e la matematica salvezza. Walker fu, però, licenziato, e sostituito dall’ex giocatore Joe Royle, che aveva precedentemente allenato l’Oldham Athletic.

La notte di Rotterdam: Coppa delle Coppe 1985

Joe Royle, il cui regno a Goodison durò dal 1994 al 1997, è l’ultimo manager ad aver portato un trofeo nella bacheca dei Toffees, l’FA Cup del 1995 (1-0 al Manchester United) a cui va aggiunta la Charity Shield dello stesso anno. Royle portò all’Everton anche un attaccante scozzese, Duncan Ferguson, che diventerà un vero idolo dei tifosi, sebbene non segnasse quanto Dean, non avesse la classe di Harvey o l’eleganza di Lineker, ma la cui tempra, la cui dedizione alla causa e l’amore per la maglia furono elementi sufficienti a far sì che sia ricordato con affetto dai fans, anche perchè la sua immagine è legata a un periodo non esattamente vincente, e in questi periodi avere uno come Duncan in squadra non poteva che essere manna dal cielo. Royle si dimise nel Marzo del 1997, e la stagione venne portata a termine dal capitano Dave Watson, che tuttavia rifiutò il lavoro quando gli venne offerto permanentemente; si optò allora per il redivivo Kendall, al suo terzo spell a Goodison Park. Un disastro. L’Everton si salvò all’ultima giornata e solo in virtù della differenza reti (a farne le spese, il Bolton), e Kendall venne licenziato. Venne nominato manager Walter Smith, ex allenatore dei Glasgow Rangers, ma le cose non migliorarono, sebbene il periodo di Smith alla guida del club durò quattro anni, fino al 2002 quando, con l’Everton in piena zona retrocessione il club, in difficoltà finanziarie, si rivolse a un giovane manager scozzese, in carica al Preston North End: David Moyes. Moyes, che come presentazione ebbe il colpo di genio di definire il club “the people’s club”, definizione che fu ben presto adottata come nickname non ufficiale dell’Everton, è a tutt’oggi il manager dei Toffees, che ha riportato a una posizione stabile in Premier League (tra cui il quarto posto nel 2005), ad una finale di FA Cup nel 2009 e nell’Europa che conta, tra cui la Champions League 2005/06 (sebbene la corsa si arrestò subito, ai preliminari contro il Villarreal). Non solo: nel 2002/03 Moyes lanciò anche in prima squadra uno dei talenti più cristallini del calcio inglese, quel Wayne Rooney, da sempre tifoso Toffees (e non sono solo parole di circostanza, basta vedere cos’ha regalato al figlio nel 2011), che nel 2002/03 incantò l’Inghilterra con un magnifico goal all’Arsenal, che peraltro inflisse ai Gunners la prima sconfitta in un anno prima di essere ceduto al Manchester United. Moyes ha recentemente dichiarato, a tal proposito, che a suo parere Rooney concluderà la carriera all’Everton. Vedremo se avrà ragione, nel frattempo i Toffees sono sicuramente in mani più che sicure, ed a parere nostro Moyes raccoglie meno consensi nel mondo del calcio di quanto dovrebbe.

L’ultimo di tanti talenti dell’Everton: il local boy Wayne Rooney

Cosa rimane in sospeso? Colori sociali e stemma, visto che del nickname abbiamo detto. La storia dei colori sociali, e quindi delle maglie, dell’Everton è piuttosto confusa. La prima divisa fu a righe verticali bianco-blu, a cui fece seguito una maglia nera con banda diagonale rossa che fu causa del nickname “black watch”, primo nick della squadra. Fu poi la volta di divisa rosa e bianca, a quadrati bianco-blu stile Bristol Rovers, nuovamente rosa, azzurra e bianca, salmone, rossa e, dal 1895 al 1901, totalmente azzurra. Finalmente, nel 1901, venne introdotto il blu che distinguerà da quel punto in poi l’Everton, associato a pantaloncini bianchi. La storia dello stemma della squadra, che raffigura la Prince Rupert’s Tower (situata nel cuore del distretto di Everton) parte invece dalla stagione 1937/38, quando il segretario Theo Kelly la riprodusse con l’intenzione di farne appunto il club crest. L’idea di Kelly vide incredibilmente la luce…40 anni dopo, quando nel 1978 venne introdotto sulla maglia lo stemma raffigurante la torre, le corone di alloro segno di vittoria e il motto latino “nil satis nis optimum” (lo stemma Kelly lo usava sulla cravatta, la sua e quella del proprietario). In precedenza, infatti, erano comparse, sporadicamente, solo le lettere “EFC”. Lo stemma ideato da Kelly, con poche modifiche, è ancora oggi utilizzato dalla squadra.

Salutiamo l’Everton con le parole di un suo giocatore, Alan Ball: “Once Everton has touched you, nothing will be the same”.

Trofei

  • First Division: 1890–91, 1914–15, 1927–28, 1931–32, 1938–39, 1962–63, 1969–70, 1984–85, 1986–87
  • F.A. Cup: 1906, 1933, 1966, 1984, 1995
  • Charity Shield: 1928, 1932, 1963, 1970, 1984, 1985, 1986 (shared), 1987, 1995
  • Coppa delle Coppe: 1984/85

Records

  • Maggior numero di spettatori: 78.299 v Liverpool (First Division, 18 September 1948)
  • Maggior numero di presenze in campionato: Neville Southall, 578
  • Maggior numero di goal in campionato: Dixie Dean, 349

Viaggio nella Liverpool del calcio: introduzione

E così siamo arrivati a Liverpool, che calcisticamente è la città più vincente dell’Inghilterra con 27 titoli d’Inghilterra, 12 F.A. Cup, 10 League Cup, 9 trofei Europei e 24 Charity/Community Shield (Londra non viene solitamente considerata a causa dell’abbondante numero di squadre). Facile dunque pensare che questo viaggio sarà più lungo dei precedenti, sia nelle sue due tappe a Goodison Park e ad Anfield Road, sia in questa introduzione, che si soffermerà, oltre che sulle caratteristiche generali della città (sì, lo sappiamo, la domanda è “entro quante righe parleranno dei Beatles?”) anche specificatamente sul Merseyside derby, senza che questo comporti però troppa dispersione di tempo e spazio che preferiamo dedicare alle singole squadre.

Liverpool è una città e metropolitan borough nella contea del Merseyside (Mersey è il fiume che la attraversa, più precisamente l’estuario del fiume), ovest dell’Inghilterra, appena sopra al Galles. Conta una popolazione di 466.400 abitanti, ma la Liverpool City Region, ovvero l’unione tra la città e la moltitudine di città e cittadine intorno ad essa, arriva ai 2 milioni di persone. Il motivo è presto detto: Liverpool, con la sua posizione che ne fa un porto perfetto, è stata uno dei cuori pulsanti di quella che fu la rivoluzione industriale, e in precedenza anche del commercio via mare verso le colonie, compresa la triste pratica del commercio degli schiavi. E proprio durante l’industrializzazione (Liverpool e Manchester sono state le prime due città nella storia collegate da una ferrovia, 1830, poi Manchester decise di farsi il porto sui canali e i rapporti tra le due città divennero un tantino tesi, ma questa è altra storia) la popolazione della città crebbe a dismisura, il tutto favorito anche dall’immigrazione dalla vicina Irlanda durante la Grande Carestia (1845-1852), tanto che nel 1851 gli irlandesi costituivano il 25% della popolazione. Una popolazione mista, dato che non furono solo gli irlandesi a trovar casa a Liverpool, ma da tutta Europa gente arrivava in città in cerca di occupazione, tant’è che ancora oggi molte chiese sono lì a testimoniare la multietnicità della città (Deutsche Kirche Liverpool, Greek Orthodox Church of St Nicholas, Gustav Adolfus Kyrka, Princes Road Synagogue, St. Peter’s Roman Catholic Church), che tra l’altro proprio in questo senso vanta il primato di prima comunità africana del Regno Unito e di prima Chinatown d’Europa. Popolazione, quella di Liverpool, che ha un nome: Scousers, termine con cui qualsiasi inglese si riferirà all’abitante di Liverpool (e del Merseyside più in generale) al posto dell’ufficiale “Liverpludians”.

I Fab Four, orgoglio scouse

Lo scouse è un piatto tipico, uno stufato di carne (agnello o mucca) che ancora oggi scoprirete essere molto popolare in quel di Liverpool. Da lì, scousers, appunto. E per estensione è diventato “scouse” tutto ciò che riguarda la città, compreso il dialetto e l’accento (ma non solo la città, tutto il Merseyside); accento molto marcato, influenzato anche dall’immigrazione irlandese, una forte connotazione maggiore nella parte nord della città, mentre la parte sud ha una parlata più morbida all’udito. Accento con cui crediamo avesse abbastanza famigliarità John Winston Lennon (origini irlandesi, got it?), nato sotto le bombe tedesche nel 1940 in Oxford Street e il cui incontro con James Paul McCartney è da annoverare tra quelli che han cambiato il corso della storia. Cosa nacque da quell’incontro di due menti geniale lo sapete tutti, ed è dunque lecito dire che, per quanto a noi interessi l’aspetto football, Liverpool tramite quattro suoi figli abbia cambiato la storia della musica. Collegare i Beatles (grande passione del sottoscritto) al calcio non è cosa immediata e forse nemmeno interessante, e nessuno saprà mai per che squadra tifasse il barbiere in Penny Lane sotto quel suburban sky. Due parole, specie su McCartney, che ci introdurranno all’argomento derby, spendiamole però, l’unico dei quattro Beatles che sappiamo avere una passione per il calcio. McCartney dichiara: “Here’s the deal: my father was born in Everton, my family are officially Evertonians, so if it comes down to a derby match or an FA Cup final between the two, I would have to support Everton. But after a concert at Wembley Arena I got a bit of a friendship with Kenny Dalglish, who had been to the gig and I thought ‘You know what? I am just going to support them both because it’s all Liverpool.””. The friendly derby lo chiamano, per l’appunto, forse non per le motivazioni di Paul, ma comunque sempre amichevole. Vediamo perchè.

La vicinanza tra Anfield e Goodison

Friendly derby (ora è più comune la connotazione geografica di Merseyside derby) perchè non è raro a Liverpool trovare famiglie “miste”, con un fratello Red e l’altro Toffee. Friendly perchè, durante la finale di Coppa di Lega del 1984 i tifosi di entrambe, mischiati in tribuna, intonarono all’unisono i cori “Merseyside!” e “are you watching Manchester?” (rivalità mai assopita). Friendly perchè i due stadi sono separati solo dallo Stanley Park. Friendly perchè nei primi 30 anni del ‘900 le due squadre avevano un solo programme, in comune, cosa impensabile ora. Friendly perchè ancora di recente vedi l’immagine commovente di due bambini nelle rispettive maglie commemorare Hillsborough, friendly perchè ad Anfield viene trasmesso il tema di Z-Cars su cui l’Everton entra in campo per commemorare un piccolo Evertonian scomparso, Rhys Jones. E così via. Sfatiamo anche un mito, quello sulla connotazione religiosa delle due tifoserie: non è assolutamente dimostrabile che l’Everton sia squadra cattolicheggiante e il Liverpool protestante (addirittura c’è chi sostiene l’opposto, a dimostrazione di quanto questa sia una semplice credenza o comunque un fattore non radicato e connotativo). Ora, detto ciò, abbiamo esaltato lo spirito friendly del derby del Merseyside, bene anche dire che negli ultimi anni è la partita che produce il maggior numero di sanzioni disciplinari, testimonianza di quanto i giocatori sentano il match, influenzati come ovvio dai propri sostenitori (i giocatori non sono tifosi, e anche se lo fossero bene ricordare che i Steven Gerrard, i Michael Owen, i Jamie Carragher etc. sono tutti nati e cresciuti tifosi…dell’Everton); negli anni ’80 inoltre i danni degli hooligans del Liverpool all’Heysel causarono l’esclusione delle squadre inglesi dalle competizioni europee per tutto il resto degli anni ’80, anni che videro un super Everton rimanere così confinato in patria tra il malumore dei tifosi Toffees.

Un’immagine di una bellezza senza confini

Nel computo totale dei match il Liverpool è in vantaggio: su 218 partite, 88 sono state vinte dai Reds, 66 dai Toffees e 64 terminate in parità. Il record di reti segnate spetta a Ian Rush, leggenda del Liverpool, con 25, mentre a 18 c’è un’altra leggenda, questa volta dell’Everton, “Dixie” Dean. E a proposito di record, ci sono record che il derby del Merseyside può vantare rispetto a tutti gli altri derby d’Inghilterra, tra i quali la più lunga striscia di imbattibilità (14 partite, detenuto dall’Everton) e la più lunga striscia d’imbattibilità casalinga (sempre 14, ma questa volta del Liverpool). Qualche statistica un po’ confusa, ma giusto per introdurre l’argomento, visto che stiamo parlando forse del derby più “nobile” del calcio inglese, da una parte la leggenda Reds, Shankly, Paisley, Keegan, Dalglish, You’ll never walk alone e la Kop etc., dall’altra l’Everton, la squadra che ha disputato più campionati di massima serie nella storia (109) e che comunque uno o due trofei li ha vinti, checcè ne dica Caressa in FIFA12 (scusate l’excursus da videogiocatore, sassolino che volevo togliermi). Dunque, quello che abbiamo capito è che ci troviamo di fronte a due giganti del football: andiamone pertanto a parlare nel dettaglio, partendo dall’Everton.

P.S. il viaggio è a Liverpool, ma l’occasione è ghiotta per attraversare l’estuario del Mersey e andare anche a Birkenhead, sede del Tranmere Rovers, che tratteremo nella terza tappa del viaggio


He made the people happy

La storia del calcio celebra troppo poco spesso gli allenatori. Certo, si parla del Milan di Sacchi/Capello o dell’Inter di Herrera, ma se c’è da spendere una parola in più la si spende con maggior voglia, solitamente, per Johan Crujff piuttosto che per Rinus Michels, o per Michel Platini piuttosto che per il Trap nazionale, e sono altresì certo che i più distratti non ricordano il nome del CT del Brasile 1970, ma si ricordano benissimo di Pelè, Rivelino, Tostao, Gerson, Jairzinho. Il post di oggi invece vuole invece celebrare, in breve e senza velleità di onniscienza, la figura di un allenatore, l’uomo che diede il via al dominio del Liverpool sul calcio inglese (ed europeo) anni ’70 e ’80: Bill Shankly.

Bill Shankly giocatore, al Preston North End

William “Bill” Shankly nasce a Glenbuck, Scozia, il 2 Settembre 1913, nono di dieci figli. La passione per il calcio gli viene probabilmente trasmessa (a lui e ai suoi 4 fratelli maschi) dal ramo materno della famiglia: uno zio, Robert, giocò nei Rangers e nel Portsmouth – di cui fu anche presidente – mentre un altro zio di nome William militò (e vedremo subito come questa sia una coincidenza con il nipote) nel Preston North End e nel Carlisle Utd. E proprio da Carlisle, cittadina di 72.000 abitanti della Cumbria, nemmeno troppo casualmente la contea inglese più vicina all’Ayrshire dove nacque Shankly, cominciò la carriera professionistica del giovane Bill. Una stagione in maglia rossoblu, 16 presenze, e il passaggio per 500£ al glorioso Preston North End, allora militante in Second Division, subito promosso in First Division con il 21enne Shankly in campo. Con i Lilywhites Shankly disputò anche due finale di F.A. Cup, nel 1937 contro il Sunderland perdendola, e nel 1938 contro l’Huddersfield portando a casa il trofeo. Giocò anche 4 partite con la maglia della Nazionale scozzese, esordendo tra l’altro a Wembley nel match vinto per 1-0 contro l’Inghilterra.

Ad interrompere la carriera agonistica di Shankly fu la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale lo sport passò in comprensibile secondo, se non terzo piano: Bill giocò durante la guerra per numerose squadre a livello amatoriale (Bolton, Arsenal, Liverpool, Northampton, Luton Town, Cardiff City, ed in Scozia per il Partick Thistle), ma quando la guerra finì e il professionismo tornò in vigore Shankly, a 33 anni compiuti, dovette riconoscere la vittoria dell’età sulla voglia di giocare e appese le scarpe al chiodo. Era il 1949, e Shankly rimase per poco disoccupato: il Carlisle United infatti, la sua prima squadra da giocatore, gli offrì la posizione di manager, dando il via alla sua seconda vita sportiva, che, come vedremo, fu colma di successi. Ecco, adesso chi si aspetta il giovane manager rampante che in pochi anni scalò le vette del calcio inglese rimarrà deluso. La carriera al Carlisle finisce dopo 2 stagioni, che videro sì un netto miglioramento della situazione del club, passato dal 15esimo al 3 posto in Division 3 North, ma anche le dimissioni di Shankly, che accusò la dirigenza dei Cumbrians & blue di non voler investire denaro nel club, insomma, di non avere ambizioni.

Shankly con la F.A. Cup del 1974

La seconda tappa della carriera da manager di Shankly fu il Grimsby Town. La squadra era reduce dalla seconda retrocessione in pochi anni e si trovava nell’ormai nota Division 3 North; si trattava di una squadra vecchia, ma il nucleo che la costituiva rimaneva quello che giocò in Second Division, argomentazione che Shankly fece sua nel tentativo di convincere i suoi giocatori che potevano ancora fare molto. E in effetti sembrò essere così, perchè nella prima stagione alla guida della squadra questa fallì, sfiorandola, la promozione, ma giocò un calcio molto bello tanto che Shankly nella sua autobiografia scrisse non senza una punta di autocelebrazione “Pound for pound, and class for class, the best football team I have seen in England since the war. In the league they were in they played football nobody else could play“. Il pubblico sembrava gradire, dato che Blundell Park superava le 20.000 presenze a partita, ma l’avventura, anche questa volta, terminò bruscamente: dopo una seconda stagione altalenante e con la squadra ormai da rifondare, Shankly si dimise, portando come ragione di ciò la mancanza di ambizione della dirigenza. Ancora una volta. Era il 1954, e il Liverpool nel frattempo stava precipitando in Second Division.

Una sola stagione al Workington (1954/1955), conclusasi all’ottavo posto della ormai stracitata Division 3 North, fu il preludio al passaggio all’Huddersfield Town, dove Shankly divenne assistente dell’allora manager Andy Beattie, reduce da un deludente dodicesimo posto in First Division (la squadra ne veniva infatti da un terzo posto). Shankly rimase all’ombra di Beattie per una sola stagione, culminata con la disastrosa retrocessione dei Terriers in Second Division. Divenuto manager, Shankly non riuscì nelle tre stagioni successive a riportare l’Huddersfield nella massima divisione, dovendosi accontentare di tre piazzamenti a metà classifica e del lancio tra i professionisti di un giovane calciatore, scozzese come lui di nome Denis Law; Shankly si oppose più volte alla cessione di Law, affermando come il ragazzo avrebbe potuto valere da lì a poco 100.000 sterline. Sbagliò inizialmente, perchè Law venne ceduto al Manchester City (Shankly ormai era già a Liverpool) per 55.000 sterline, ma successivamente passò al Manchester United per 115.000, un trasferimento che vide compiuta la profezia di Shankly (e rese immortale Law, ma questa è altra storia che magari tratteremo).

Shankly's Gates, Anfield

Si arriva così alla stagione 1959/1960. L’allora presidente del Liverpool Thomas Valentine Williams aveva già, in passato, messo Shankly in cima alle preferenze, preferendogli tuttavia altre soluzioni. Ma dopo una disastrosa sconfitta in F.A. Cup contro il Worcester City (Gennaio 1959) e le dimissioni di Phil Taylor nel Novembre dello stesso anno, sembrava giunto il momento per un “uomo nuovo” in grado di guidare la squadra fuori dal pantano in cui era finita, e di ristrutturarla sotto tutti gli aspetti: quell’uomo venne individuato appunto in Shankly. Al suo arrivo ad Anfield trovò una situazione disastrosa. Campi di allenamento fatiscenti, squadra povera di talento, mancanza di cultura tattica: basterebbero queste tre cose per capire la rivoluzione che Shankly portò nel Merseyside. Trasformò la struttura di allenamento di Melwood in una forza per la squadra, potenziando i programmi di fitness, di dieta, introducendo nuove tecniche di allenamento e trasportando la squadra da Anfield al campo di allenamento in bus con lo scopo di cementare lo spirito di squadra; rilasciò 24 giocatori, e creò la mitologica Boot Room ad Anfield, trasformando un magazzino in una sala destinata alle riunioni tattiche sue e del suo team di collaboratori, che comprendeva Reuben Bennett, Joe Fagan e Bob Paisley (un nome che dovrebbe evocare qualcosa..).

Sarebbe dispersivo elencare qui stagione per stagione la carriera di Shankly al Liverpool. Basterà ricordare i primi acquisti, l’attaccante Ian St John dal Motherwell (scusate, ma non resisto: la famigerata frase “Jesus saves, but St John scores from the rebound” rimane la mia preferita) e il centrocampista Ron Yates dal Dundee United, che contribuirono alla risalita dei Reds in First Division (1961/1962), a cui si aggiunsero una volta raggiunto l’obbiettivo Willie Stevenson dai Rangers (terzo acquisto da una squadra scozzese) e Peter Thompson dal Preston North End per una cifra intorno alle 40.000 sterline. La squadra, potenziata nell’organico e nella struttura di base, vinse il titolo del 1964, partecipando così alla Coppa dei Campioni l’anno successivo, dove dovette arrendersi all’Inter di Herrera (3-1 Reds ad Anfield, 3-0 interista a Milano, la partita di  When the Saints go marching in diffusa a tutto volume nello stadio). La delusione europea fu mitigata dalla conquista della prima F.A. Cup della storia del Liverpool, contro il Leeds. Il 1965/1966 vide nuovamente i Reds sul tetto d’Inghilterra, ma nuovamente sconfitti in Europa: la finale di Coppa delle Coppe venne infatti persa contro i tedeschi del Borussia Dortmund per 2-1 all’Hampden Park di Glasgow.

La celebre foto di Shankly sotto il Kop

La fine degli anni ’60 coincise con la fine del primo ciclo targato Shankly. La squadra venne ringiovanita, con gli addii di Hunt, St John, Yeates, Lawrence e gli acquisti di Heighway, Clemence, Toshack e soprattutto di Kevin Keegan. Nasceva il secondo grande Liverpool, che vinse il titolo nel 1973 e soprattutto riuscì finalmente a mettere in bacheca il primo di tanti trofei europei: la Coppa UEFA, vinta contro il Borussia Monchengladbach (3-0 ad Anfield, 0-2 per il Borussia al ritorno). L’F.A. Cup 1974 è l’ultimo trofeo targato Shankly, che nel Luglio di quell’anno decise che era ormai giunto il tempo di dedicare tempo alla famiglia. A 61 anni, il manager rassegnò le dimissioni, venendo sostituito alla guida del club da quel Bob Paisley suo storico collaboratore. Tuttavia non fu facile staccare con il calcio per Shankly. Si pentì delle dimissioni, iniziò a frequentare nuovamente, ma stavolta da privato cittadino (non gli fu mai offerto il ruolo di dirigente del club) Anfield e Melwood, di cui era padrone assoluto riconosciuto; la dirigenza non gradì, e gli vietò l’ingresso negli impianti, timorosa che la sua costante presenza, e ingombrante in certi sensi, togliesse credibilità al nuovo manager, anche perchè dicono le fonti che venisse chiamato ancora da tutti “boss”, mentre Paisley doveva accontentarsi di un poco consono al suo ruolo “Bob”.

Un infarto si portò via Bill Shankly il 29 Settembre 1981, lasciando il Mondo del calcio nella più totale disperazione: tra i vari episodi mi piace citare John Toshack, ex giocatore di Shankly che durante il minuto di silenzio (la partita era Liverpool-Swansea, Toshack allenava i gallesi) indossò la maglia red in ricordo del suo vecchio allenatore. La morte lo portò via solo fisicamente, perchè lo spirito di Shankly vive tutt’oggi ad Anfield. Il rapporto con i tifosi fu uno dei suoi grandi punti di forza, forse per una vicinanza di estrazione culturale (la working class), forse perchè, nella sua mente che definiremmo moderna, Shankly aveva intuito il potenziale di quello stadio e l’importanza dell’empatia tra manager, squadra e tifosi, e fece di tutto per creare quell’atmosfera che ancora oggi fa tremare le gambe a chi entra ad Anfield Road. Il rapporto con i tifosi, dicevamo: la foto di Shankly sotto il Kop, il celeberimmo settore dei tifosi di casa, con la sciarpa al collo, una sciarpa lanciatagli dai tifosi e che un poliziotto aveva incautamente spostato da una parte beccandosi il rimprovero dello stesso Shankly (“Don’t do that. This might be someone’s life“), rappresenta al meglio quel rapporto che si era venuto a creare tra manager e tifoseria. Grande motivatore, grande oratore (“Certa gente crede che il calcio sia una questione di vita o di morte. Questa mentalità mi delude. Vi posso assicurare che è molto più importante”, tra le tante massime), grande allenatore, le cui squadre giocavano un calcio fatto di fitti passaggi in velocità, grande innovatore, Shankly fu molto di più, e rimango convinto che solo un tifoso del Liverpool può apprezzare al meglio quello che fu realmente. E nonostante il Liverpool targato Paisley vinse di più, senza l’apporto di Shankly la dinastia Reds non sarebbe forse mai nata.

Un giorno disse: “I was only in the game for the love of football – and I wanted to bring back happiness to the people of Liverpool“. Nel 1998 gli dedicarono una statua, posta fuori Anfield, riportante l’epigrafe “he made the people happy“. Beh, direi che ci sei riuscito, Bill.

La statua posta fuori Anfield. He made the people happy