Un Groundhopper a Londra – In giro per stadi con London Football

Con immenso piacere ospitiamo sulle nostre pagine Gianni Galleri, di London Football (QUI la pagina Facebook, QUI il sito), che condivide con noi la passione per il calcio inglese e, in questo caso specifico, la sua esperienza da groundhopper londinese. Sperando di collaborare nuovamente in futuro, buona lettura! Chiudete gli occhi e immaginate il Tube, gli autobus a due piani, e tutto ciò che è Londra….

Un Groundhopper a Londra – In giro per stadi con London Football

«E poi voglio assolutamente vedere alcuni stadi di non League». «Che sarebbe, la nostra Eccellenza?» «Beh, più o meno Promozione e Prima Categoria, anche se la piramide della FA è diversa dalla nostra». Lo sguardo dell’amico di turno traboccherà di un misto di compatimento e ironia. E’ il duro mestiere del groundhopper. Noi lo sappiamo, sono loro che non ci capiscono.

Comincia così il mio viaggio a Londra dell’agosto 2013. Fra la perplessità degli amici e una ragazza che mi aspetta a Londra e che, indaffarata com’è, mi lascerà un sacco di ore per girarmi le periferie più sperdute in cerca di ground da ammirare e da fotografare. Un viaggio che mi porterà a visitare 13 stadi per un totale di 16 squadre, dalla Premier, fino alla Isthmian Division One. Ma andiamo con ordine.

Il sud e l’ovest

Afc Wimbledon, Kingstonian, Tooting & Mitcham United, Corinthian Casuals, Crystal Palace e Dulwich Hamlet

Da quando ho aperto il sito e la pagina facebook di London Football ho avuto il piacere di conoscere moltissima gente interessante. Uno di questi è Gary, responsabile della comunicazione dei Corinthian Casuals, gloriosa squadra dal pedigree e dalle imprese degne di un Real Madrid o di un Benfica.

Insomma, Gary mi invita a vedere i Pink & Chocolate. La partita è in trasferta, per la precisione a Mitcham, nella casa del Tooting & Mitcham United. L’incontro inizia alle due e io mi prendo tutto il tempo necessario per fare qualche giretto. Prendo il treno alla stazione di Brentford e da lì mi dirigo a Clapam Junction. Coincidenza verso Sud e scendo a Norbiton. I più esperti hanno già capito. Sto per andare al Prato del Re. L’ormai famoso Kingsmeadow, casa dell’AFC Wimbledon.

Arrivo nella bella zona e decido di farmi a piedi il pezzo che mi divide dallo stadio. Percorro una grande arteria piuttosto trafficata, quando all’improvviso me lo ritrovo sulla destra.

Già l’entrata è uno spettacolo con la cancellata ad annunciare l’impianto. Mi dirigo verso la Club House per chiedere se qualcuno mi fa visitare lo stadio. Davanti a una pinta di sidro provo a fare due chiacchiere, ma più che tifosi, sembrano normali bariste impegnate a pulire. Cerco qualcun altro, ma con il mio inglese traballante riesco solo a farmi trattare male da una signora bionda.

Sto quasi per rinunciare quando mi viene un’idea. Andiamo da quelli del Kingstonian che con i Dons dividono l’impianto (prima erano i proprietari, adesso sono affittuari – NdR l’impianto è passato dal Kingstonian alla famiglia Khoslas, per poi passare ai Dons che, peraltro, lo affittano al Kingstonian per una cifra inferiore di quella pagata ai Khoslas).

Sorpresa delle sorprese, trovo un signore e un ragazzo gentilissimi che senza problemi mi guidano dentro per fare due foto. Prima andiamo sul terreno di gioco e poi, con mio sommo piacere, negli spogliatoi. Mi invitano a rimanere per l’incontro pomeridiano, ma non c’è tempo. Ringrazio i miei amici e me ne vado verso Mitcham. Gary mi aspetta là, e ha con sé il mio pass della Isthmian League. Per una volta sono un ospite di riguardo.

Il KNK Stadium, casa dei Terrors, è una struttura ben al di sopra delle aspettive. Dalle nostre parti potrebbe fare tranquillamente una serie C1. Un’enorme tribuna coperta e 3 terraces circondano il campo. La partita è poco favorevole all’amico Gary, i bianco-neri asfaltano gli ospiti con un netto 5-1. La mia prima partita di non League si conclude con un’altra birra nella club house dove il numero 10 locale viene premiato come migliore in campo. Fra gli applausi delle due tifoserie.

Ma il nostro giro a sud non è ancora finito. Il giorno seguente, dopo una mattinata trascorsa al British Museum, convinco la mia ragazza – che spesso mi accompagna, appassionata di calcio com’è – ad andare a Selhurst Park, casa del Crystal Palace.

Anche stavolta dobbiamo prendere il treno. La fermata ha lo stesso nome dello stadio, Selhurst. Prendiamo una stradina stretta, una via residenziale fino alla fine, ed eccoci a poche centinaia di metri dallo stadio. La prima impressione è che sembra molto più grande di come ce lo aspettavamo. La tribuna spicca altissima tra le case. Gli giriamo intorno, arriviamo allo shop. Vorrei comprarmi la seconda maglia, ma hanno solo la prima che sembra la brutta copia di quella del Barcellona.

Alla reception chiediamo di visitare l’interno dello stadio e un vigilantes ci accompagna dentro. C’è un forte odore di erba tagliata che dà quasi fastidio, ma appena voltato l’angolo ci troviamo dentro, sommersi da un’enorme quantità di rosso e blu. Il nostro accompagnatore è sinceramente stupito che degli italiani vogliano visitare questo stadio, ci dà qualche informazione di servizio e poi ci accompagna fino alle panchine, dove con mio grande piacere mi siedo e scatto diverse foto. C’è una rete che ci divide dal campo. Il vigilantes ci chiede di fare attenzione, perché è elettrificata: sembra che le volpi di notte entrino in campo e danneggino il manto.

Uscendo dallo stadio mi divido dalla mia ragazza. Lei tornerà in zona Brentford con il treno, io farò il giro con la metro. Lei lo sa, ma fa finta di niente. Sa che mi fermerò da qualche altra parte, ma se ne torna volentieri a casa.

Arrivando a Selhurst station, siamo passati di fronte a Dulwich East. Il passo è breve. Ci vuole una visita allo stadio degli Hamlet. Il campo è veramente a pochi passi dalla fermata e da lontano spicca il suo famoso “frontone” con le iniziali DHFC. C’è da rendere omaggio alla squadra di EFS. E’ tutto aperto e io mi faccio una passeggiata in solitaria. Visito campo e club house (vuota). Faccio una serie di foto e mi incammino verso la stazione. Sono le 18.35, se mi sbrigo posso attraversare tutta Londra e andare a vedere il nuovo stadio del Barnet, dall’altro capo della Jubilee. Ma ne parleremo un’altra volta.

Champion Hill

Nord-Ovest

Barnet, Wealdstone, Harrow, Hendon, North Greenford United e Wembley Fc.

Da Dulwich ad Canons Park ci vuole un’oretta di metro. Fortunatamente con me ho un gran bel libro: British Corner di Simone Galeotti. Una piccola perla che parla di storie di calcio britannico, scritte veramente bene. Mi ritrovo quasi a piangere mentre leggo del Manchester United e del disastro di Monaco e a emozionarmi per le due squadre di Dundee. Arrivo alla fermata dello stadio del Barnet che il sole sta tramontando. Già di per sé è un quadro romantico.

Ma non rende abbastanza l’idea. C’è bisogno di sforzare un attimo l’immaginazione e creare un ambiente idilliaco dove un campo sportivo corre dietro all’altro, in una distesa verde di prati, all’inglese. La luce arancione dà un senso di calore e rilassatezza. Mi tolgo le scarpe e passeggio sull’erba andando incontro all’alveare.

The Hive è il più nuovo degli stadi delle squadre professionistiche di Londra (anche se Barnet è uscito dalla Football League, rimane ancora professionista). La sua adozione ha portato più di qualche polemica, ma il colpo d’occhio e la location ripagano lo stanco tifoso che arriva a vedere la partita. Entro nello shop e cerco una maglia, anche dell’anno prima. Ma oltre a non essere bellissime, hanno prezzi un po’ altini. Mi accontento di una spilla. La vera sorpresa è la club house. Ha una finestra enorme che affaccia direttamente sul campo. Mi prendo una London Pride e mi rilasso al sole.

Purtroppo è già tempo di ripartire, mi aspettano per cena. Rifaccio la strada all’indietro quando, in uno dei campi che compongono il complesso del centro sportivo, mi becco Qpr-Barnet, giovanili femminili. Prima il piacere e poi il dovere. C’è sempre tempo per il calcio.

Mentre stavo alla stazione di Canons Park, lontano, sfocato dalla distanza l’ho visto: l’Arco. La storia del calcio era distante solo pochi chilometri. Wembley mi chiamava. Ovvio che il giorno dopo ho organizzato la mia mattinata per visitare lo stadio degli stadi. Partenza come al solito da Northfields: Piccadilly Line fino ad Acton Town e da lì cambio di ramo e, sempre la stessa linea, ma in direzione Uxbridge, fermata Ruislip, zona 6. L’obiettivo è lo stadio del Wealdstone, omaggio all’amico Marco Parmigiani. Devo dire però che ultimamente le Stones sono anche entrate nel mio cuore, soprattutto grazie all’acquisto di uno dei miei giocatori preferiti: Glen Little, il Pirlo della Conference.

La zona è meravigliosa. Calma. Ricca. Verde. La passeggiata verso l’impianto è un piacere. Arrivo al Grosvenor Vale in un caldo e assolato mattino. Non c’è nessuno con l’esclusione di una persona che si allena al tiro con l’arco. Scatto qualche foto, faccio il giro e arrivo dall’altra parte del campo. Mi prometto di venire a vedere una partita.

Mentre cammino cerco un pub, ma la zona è assolutamente residenziale e non c’è niente. Mi convinco, sono nell’estrema periferia ovest, non mi ricapiterà: devo fare il giro completo. Prossima tappa Earlsmead Stadium, casa dell’Harrow Borough e, per quest’anno, dell’Hendon. Paradossalmente la zona sembra ancora più ricca e immacolata. Anche questo stadio purtroppo è vuoto, ma a differenza di quello delle Stones, isolato e pacifico, questo sorge fra le villette e non si vede praticamente niente. C’è un signore che pulisce gli spogliatoi, ma forse parla meno inglese di me e dopo un paio di tentativi ci rinuncio e riprendo a camminare. Non troppo lontano gioca il North Greenford United.

Quello che mi trovo davanti quando giro l’angolo dell’ultima via abitata è un immenso parco che corre in salita, con un prato che dopo qualche centinaio di metri diventa bosco. Il campo è pieno di gente che corre e più in là c’è un’insegna, accanto a un baracchino di legno. E’ una società sportiva gaelica, o qualcosa del genere. Cinquanta metri più in là, in mezzo a due ali di alberi, c’è un cancello e sopra un cartello. Siamo arrivati.

Stavolta è tutto aperto; mi siedo sulla stand dietro la porta e scatto qualche foto. Inutile dirlo il manto è meraviglioso e anche la club house sembra carina. Purtroppo non c’è nessuno e devo accontentarmi, rimanendo con la sete.

Prima di andare a Wembley vero e proprio, proprio perché mi trovo a passarci davanti, visito anche lo stadio del Wembley FC. Devo premettere che è una squadra che mi sta molto antipatica, una trovata pubblicitaria (hanno preso vecchi giocatori e hanno uno sponsor importante – ma vale solo per la FA Cup, ndr) e in più un amico mi aveva messo in guardia. Insomma riesco a malapena a fare due foto da fuori e scappo verso il più famoso Wembley Stadium.

Non mi dilungherò troppo sullo stadio degli stadi. In molti ne hanno parlato prima e meglio di come potrei fare, però vi garantisco che l’emozione di scendere dalla metro, percorrere quella scalinata e trovarsi di fronte quell’arco è una cosa per cui vale la pena andare a Londra. Fidatevi.

Est e Sud-Est

Dagenham and Redbridge, Charlton Athletic, Welling United e Erith and Belvedere.

Se a Londra dici Est, nel calcio, la gente capisce solo West Ham. I più appassionati possono anche immaginarsi Leyton Orient, ma nessuno – o solo un groundhopper – penserà al Dagenham and Redbridge. Dopo una colazione con una vecchia amica che non vedevo da anni, parto da Liverpool Street, verso Hornchurch, fermata Dagenham East. Appena scendo prendo a sinistra, oltrepasso la caserma della polizia e cammino sulla via principale finché non trovo il cartello che mi indica Victoria Road.

Il primo impatto è molto buono. Lo stadio ha un bell’ingresso, c’è un bel parcheggio con lo shop in mezzo. Tuttavia una volta entrato nella club house mi ritrovo di fronte due signore piuttosto cafone che a malapena alzano la testa dai loro affari. Mi servono una pinta di sidro, ma di visitare lo stadio o di aprirmi lo shop non se ne parla nemmeno.

Dopo la fallimentare prima esperienza a est, provo a rifarmi con una bella passeggiata nel Sud Est. Siamo ormai all’ultimo giorno. Fra ventiquattro ore dovrò essere a Stansted per tornarmene in Italia; il corpo, ma soprattutto la mente mostrano i primi segni di stanchezza. La scusa è una gita a Greenwich con ragazza annessa: galeone, università, osservatorio. La realtà si chiama The Valley. La casa del Charlton Athletic.

Si arriva con un autobus, un cheeseburger a un fast food a 100 metri dallo stadio e via. Prima tappa allo shop. L’ho puntata da due mesi: la away di quest’anno dev’essere mia. Investo 42,50 pound in una meravigliosa casacca da trasferta, e faccio conto tondo con 2,50 sterline per la spilletta. Purtroppo lo stadio è chiuso e non c’è nessuno che può farci entrare. Ma ci fermiamo di fronte alla statua di Sam Bartram e scattiamo qualche foto da lì. L’impressione, anche dall’esterno, è ottima e si respira un’aria di quartiere popolare che emoziona e infiamma.

L’ultimo stadio del nostro lungo viaggio ci serve per chiudere il cerchio (in attesa del Vicarage Road, troppo lontano per ora) degli stadi dalla Premier alla Conference. L’obiettivo è Park View Road. Da Charlton non è lontano, ma neanche così vicino come sembra sulla cartina. Ci mettiamo mezz’ora di autobus, e quando arriviamo la struttura non è che ci esalti particolarmente. Intanto è chiusa la club house e lo shop neanche si vede; e la parte dell’Erith & Belvedere, che con le Wings (il Welling United) divide la struttura, non è proprio accessibile. Almeno possiamo avvicinarci al terreno di gioco e scattare qualche foto, ma niente di più.

Il rientro a casa serve solo per fermarsi da Lilywhites e spendere le ultime sterle per prendere quella maglia dei Rangers in offerta che mi guarda da quando sono arrivato a Londra.

Gianni Galleri

Non league football: Tooting & Mitcham United

Torniamo con il calcio di non-league, torniamo con un club londinese, per la precisione del borough di Merton, sud-ovest della capitale britannica: il Tooting & Mitcham United

imagesTooting & Mitcham United Football Club
Anno di fondazione: 1932
Nickname: the Terrors
Stadio: Imperial Fields, Morden
Capacità: 3.500 (612 a sedere)

Come suggerisce il nome, l’origine del club avviene tramite l’unione di due squadre preesistenti: il Tooting (1887) e il Mitcham Wanderers (1912). L’unione venne dettata da una constatazione della realtà: le due squadre, vicine, si facevano troppa concorrenza nell’area. Meglio dunque unire le forze, e nel 1932, dopo due anni di discussioni, nacque l’attuale club. L’incontro avvenne in un pub, più precisamente al Forester Arms di Mitcham Road, in quel di Tooting: il gestore del pub, mister John Beard, divenne il presidente del nuovo club, che prese il nome di Tooting & Mitcham FC. Il suffisso United verrà aggiunto solo qualche stagione dopo. La prima divisa del club consisteva in una maglia interamente bianca, e solo negli anni ’50 comparirà la tenuta a strisce bianco-nere che ancora oggi caratterizza il club. Le partite venivano giocate all’impianto di Sandy Lane, che fino al 2002 sarà la casa della squadra.

La storia del Tooting & Mitcham è fatta, in ben dieci occasioni, dal raggiungimento del primo turno di FA Cup. Nel 1959, giunti al terzo turno, i Terrors vennero sorteggiati contro il Forest: a Sandy Lane si portarono addirittura sul 2-0, prima di venire raggiunti sul 2-2 e poi sconfitti, a Nottingham nel replay, davanti a più di 40.000 spettatori. Nel periodo che va dagli anni ’40 a fine anni ’50 vennero messe in bacheca tre London Senior Cup, cinque Surrey Senior Cup (alle quali nel corso degli anni se ne aggiungeranno altre quattro), due titoli di Athenian League e due di Isthmian League. Furono indubbiamente gli anni d’oro dei Terrors.

Nel 1961 un local boy, di ruolo portiere, fece l’esordio per il club: Alex Stepney, che passerà poi al Millwall fino ad arrivare a vestire le maglie di Chelsea e Manchester United, oltre a quella della Nazionale inglese, e ad alzare una Coppa dei Campioni. Anche Dario Gradi, mitologico manager del Crewe Alexandra, giocò per un breve periodo nel Tooting & Mitcham. La metà degli anni ’70 segnò un nuovo periodo d’oro del club che, oltre alle coppe locali (tre Surrey Senior Cup) stabilì i propri record di avanzamento in due trofei: FA Cup e FA Trophy. Nella Coppa per eccellenza, i Terrors giunsero al quarto turno, dopo aver eliminato Romford, Leatherhead e Swindon Town (al replay), per poi perdere contro il Bradford City a Valley Parade. In FA Trophy la corsa si arrestò invece ai quarti di finale.

La collocazione del club

La collocazione del club

Ultimamente i Terrors sono tornati a far parlare di loro, con la vittoria dell’Isthmian Division Two nel 2000/01 e con la promozione in Isthmian Premier nel 2008 (sconfitto il Cray Wanderers nella decisiva partita), a cui vanno aggiunte una Surrey Senior e due London Senior consecutive, nel 2006/07 e 2007/08. Dal 2002 la squadra gioca a Imperial Fields Stadium (KNK Stadium), dopo l’abbandono di Sandy Lane a causa delle carenti condizioni della struttura e i pericoli d’incendio per un impianto totalmente in legno.

Trofei

  • Athenian League: 1949–50, 1954–55
  • Isthmian League: 1957–58, 1959–60
  • Surrey Senior Cup: 1937–38, 1943–44, 1944–45, 1952–53, 1959–60, 1975–76, 1976–77, 1977–78, 2006–07
  • London Senior Cup: 1942–43, 1958–59, 1959–60, 2006–07, 2007–08

Sito ufficiale

 

The cross-border derby

Torna a collaborare con noi Jacopo Ghirardon e lo fa con un pezzo sul derby Wrexham-Chester, che si è giocato oggi (per la cronaca, 2-0 Chester). Buona Lettura!

 

Il weekend calcistico che a breve inizierà propone due dei derby più famosi all’interno del panorama calcistico Inglese: uno è il “derby d’Inghilterra”, tra le due squadre più famose e probabilmente conosciute anche nel resto del mondo, ossia Liverpool contro Manchester United, e uno locale, ossia uno dei tanti derby di Londra, tra Tottenham ed Arsenal, anche se questo è il North London Derby, una rivalità pazzesca seconda probabilmente soltanto a West Ham-Millwall. Si giocherà poi un terzo derby in questo weekend, ai più sconosciuto, ma in realtà una delle rivalità più forti e sentite dell’intero panorama calcistico britannico, relativamente alle categorie minori. Britannico, non Inglese, perché le squadre in questione, pur partecipando allo stesso campionato (la Skrill Premier, per i nostalgici la Conference National), appartengono a due paesi diversi: il Wrexham è infatti una delle 6 squadre Gallesi che gioca in Inghilterra, mentre Chester è l’ultima città prima del confine col paese del Dragone, con buona pace del Regno Unito che, almeno a livello calcistico, non ha poi tutta questa importanza.

Chester

La storia dei due club. Come vedremo, la storia dei due clubs presenta diversi avvenimenti in comune. Cominciamo dalla squadra che giocherà in casa questo derby, chiamato appunto per la posizione geografica particolare “cross border derby”. Il Wrexham è uno dei club britannici più antichi della storia, visto che è stato fondato nel 1864, con la prima partita giocata al Denbigh County Cricket Club contro i Prince of Wales Fire Brigade. Curiosità della gara è che verrà giocata in un terreno che poi sarà lo stesso su cui verrà costruito il Racecourse Grounds, attuale stadio del Wrexham dal 1872: sono in corso ricerche per capire se lo stadio è stato utilizzato anche prima, il che renderebbe i Dragoons il club più antico al mondo a giocare da sempre nel suo stadio di appartenenza. Nel 1877 il Racecourse ospita la prima gara internazionale, contro la Scozia, mentre l’anno dopo il Wrexham partecipa alla prima competizione ufficiale, ossia la prima edizione della FAW Cup, in cui batteranno in finale il Druids di Cefn Mawr (il club più antico del Galles, fondato nel 1861, che per altro nello scorso anno ha esordito in Europa League dopo aver ottenuto la finale di Coppa del Galles) per 1-0. Nel 1883 l’esordio in FA Cup, dove il Wrexham cede all’Oswestry Town (altra squadra che in Galles sta avendo molta fortuna negli ultimi anni, sotto il nome di The New Saints). Nel 1890 il Wrexham venne invitato a partecipare alla Combination, la categoria subito successiva alla Football League. Nel 1894 la squadra retrocede in Welsh League (che fino al 1992 sarà parte della piramide inglese, prima di diventare separata con l’affiliazione alla UEFA). Il Club risale nel 1900 in Combination, e nel 1921 ottiene la promozione nella Football League, esattamente nel neonata Third Division North, step 3 del calcio Inglese. Nel 1933 sfiorano la promozione in Second Division, ma perdono il duello con l’Hull City nel finale della stagione. Il club vivacchia nella categoria per 30 anni, ottenendo il quarto turno di FA Cup contro il Machester United, che si impone davanti agli oltre 35mila spettatori del Racecourse per 0-4. Gli anni ’60 sono quelli dello yo-yo tra Third e Fourth division, mentre gli anni ’70 danno nuovo splendore ai Dragoons, che grazie alla possibilità di competere in Welsh Cup, intraprendono diverse cavalcate Europee emozionanti. Nel 1972 l’esordio in Coppe Coppe, dove eliminano il Zurigo prima di essere eliminato per la regola dei goal in trasferta contro l’Hajduk Spalato. Nel 1973 arrivano fino ai quarti di finale di FA Cup, perdendo contro il Burnley. L’anno successivo rivincono la Coppa del Galles, e tornano in Coppa delle Coppe dove si arrendono ai quarti contro l’Anderlecht. Nel 1979, finalmente, la tanto sospirata promozione in Second Division, a coronare un decennio di grandi successi per i Gallesi. L’inizio degli anni ’80 è drammatico, con una doppia retrocessione in Fourth Division. Ci si deve ancora aggrappare alla gloria Europea, che torna nel 1984 quando il Wrexham viene eliminato dalla Roma negli ottavi della Coppa delle Coppe, a cui il Wrexham parteciperà ancora nel 1986 e nel 1991, con l’eliminazione subita dal Manchester United. Ma questa stagione, che vede i Dragoni impegnati nella lotta per non retrocedere nella Conference, vede uno dei cupset in FA Cup più famosi di sempre, il 2-1 inflitto all’Arsenal al terzo turno, che consegna alla leggenda il club Gallese. Gli anni ’90 portano alla promozione nella Third Division, mentre gli anni 2000 sono quelli più travagliati della storia dei Dragoni, che nel 2004 entrano in amministrazione controllata, con il presidente Alex Hamilton che porta il club sull’orlo del fallimento. Nel 2005 il club, nonostante la vittoria nel Football League Trophy, retrocede in League 2, e solo con l’intervento di Neil Dickens viene scongiurato il fallimento. La stagione è difficile, e la salvezza viene ottenuta solamente all’ultima giornata, con lo “spareggio” contro il Boston United vinto per 3-1 davanti a quasi 30mila spettatori. La retrocessione arriverà la stagione dopo, mettendo fine a 87 anni consecutivi di permanenza nella Football League. Nel 2011 finiscono gli incubi a livello economico, col Wrexham Supporters Trust che compra il club e sana tutti i debiti. La stagione 2012-13 vede il trionfo nell’FA Trophy, ma la sconfitta nella finale playoff nel derby contro il Newport County.

Fondato nel 1885 con la fusione di Chester Rovers e Old Kings Scholars, il Chester City nel 1890 ottiene l’iscrizione alla Combination, giocando inizialmente le sue partite al The Old Showgrounds, spostandosi definitivamente a Sealand Road nel 1906. Il club vincerà la Combination nel 1910, unico risultato di rilievo fino al 1931 quando la squadra ottiene la promozione in Football League, ai danni del Nelson FC. Nel 1933 la vittoria nella FAW Cup: visto la posizione esattamente al confine col Galles, il club poteva partecipare alla Coppa del Galles. In finale viene battuto, neanche a dirlo, il Wrexham, dando di fatto inizio alla forte rivalità tra i due clubs. Di fatto per 40 anni il Chester resta senza successi di rilievo, rimanendo l’unico club all’interno della Football League a non aver mai ottenuto una promozione. L’incantesimo si rompe nel 1974, quando la squadra allenata da Ken Roberts ottiene la promozione ai danni del Lincoln City alla Third Division. La stagione fu anche quella della clamorosa semifinale di League Cup, dove vennero eliminati per 5-4 dall’Aston Villa, dopo aver eliminato giganti come Leeds United o Newcastle United nei turni precedenti. Gli anni successivi sono di consolidamento, con il Chester che ottiene ottime deep runs in FA Cup e lanciano un giovane Ian Rush verso il calcio che conta. Il Club resta in Third Division (che diventerà nel contempo Second Division con la nascita della Premier League) fino al 1994, quando tornano in Third Division. La stagione 1995 vede la sconfitta contro lo Swansea nella finale playoff. Intanto nel 1992 viene costruito il nuovo stadio, il Deva Stadium, che ha la caratteristica di trovarsi esattamente al centro del confine tra Galles e Inghilterra: tre tribune si trovano in territorio Gallese, quella centrale e più capiente in quello Inglese. Curioso pure il nome dello stadio, che riprende il nome del Castrum Romano Deva Victrix, antico nome della città di Chester appunto. Nel 1998 il club entra in amministrazione controllata, visto anche le enormi spese per la costruzione del nuovo stadio, e nonostante l’acquisizione del club da parte dell’Americano Terry Smith, scendono in Conference nel 2000 dopo 69 anni di militanza consecutiva in Football League. Nel 2003 questi problemi sembrano superati, e il club torna in Football League vincendo la Conference alla penultima giornata con un 1-0 allo Scarborough. Curiosamente, è l’unico campionato vinto nella storia del Chester City FC. La stagione 2008-09 è quella del ritorno in Conference, perdendo all’ultima giornata a Darlington per 2-1. La retrocessione è drammatica, e lo spettro del fallimento torna più vivo che prima, e l’iscrizione al campionato viene garantito solamente alla seconda giornata, quando il Chester City 2009 LTD riesce ad iscrivere con l’aiuto della FA il club alla Conference, nonostante 25 punti di penalizzazione. Ma l’agonia continua, e dopo una stagione ovviamente iper complicata, il club a Febbraio si trova ancora a -3 punti, e i giocatori, dopo numerosi mesi senza ricevere stipendio, entrano in sciopero: la neonata società non riesce a gestire la situazione ed è costretta a chiudere, a campionato in corso, il 10 Marzo 2010. La società tenta un colpo di coda, cercando di iscirvere, a campionato praticamente concluso, il club alla Welsh Premier League, cosa che però viene respinta dal board del campionato Gallese. I tifosi presero in mano la situazione, e nell’estate successiva rifondano il Chester FC, vecchio nome del club nelle sue origini. Ottengono dalla FA l’autorizzazione a partecipare alla Norhern Premier League Division 1, step 8 del calcio Inglese, e l’entusiasmo sale, con la prima gara in assoluto, l’amichevole contro l’Aberystwyth Town, che segna il nuovo inizio dell’ultracentenario club. La stagione è un successo, con la promozione ai danni dello Skemersdale Town ottenuta all’ultima giornata. La stagione successiva in Northern Premier League è un vero trionfo, con 100 punti realizzati ai danni di squadre prestigiose come Northwich o FC United of Manchester. Nell’ultima stagione arriva la promozione in Confernce National, con il trionfo in Conference North, strapazzando tutti i record: 107 punti totalizzati, 103 goal segnati, differenza reti di +74.

Il Cross Border Derby. 12 Miglia separano le due città, ma come abbiamo visto c’è di mezzo pure un confine che a livello calcistico conta eccome. La rivalità tra i due club è pazzesca, con ripetuti scontri tra entrambe le fazione, per altro ben note per le loro azioni violente specialmente negli anni ’80, portano sempre un numero elevatissimo di forze dell’ordine per garantire il regolare svolgimento della partita ed evitare che le due tifoserie entrino in contatto. Il primo derby si giocò nella FA Cup del 1888, quando il Wrexham si impose per 2-3 a Faulkner Street, vecchio stadio del Chester. Complessivamente ci sono stati 145 incontri tra le due squadre, con 65 vittorie per i Reds, 49 per il Chester e 30 pareggi. 26 di queste sfide si sono svolte nella FAW Cup, mentre 9 nella FA Cup. Il derby di oggi sarà il primo tra le due squadre dopo essere stati acquistati dai propri tifosi. Basterà questo per calmare gli animi? Non si sa, comunque sia, this is the Cross Border Derby!

La storia dei club: Preston North End

Preston, Lancashire. Questa comunità di 114.300 abitanti è, per molti versi, la capitale del Football. Ci arriveremo, prima però la consueta introduzione. Preston è il centro amministrativo del Lancashire, e il consiglio della contea ha sede proprio qui, nella città lambita dal fiume Ribble. Due i membri eletti al Parlamento di Westminster, e quindi due le circoscrizioni: Preston (attualmente seggio laburista) e Wyre and Preston (conservatore) Classica città del nord un tempo industriale, dove quando le fabbriche se ne sono andate hanno lasciato la scia di disoccupazione e terziario da reinventarsi, nativo di Preston era ad esempio Richard Arkwright, uno dei più famosi inventori che contribuirono a cambiareo la storia del mondo tramite l’industria. Preston come detto è però universalmente associata al football non tanto come invenzione del gioco, quanto all’epoca della creazione della Football League e delle leghe minori poi confluite in essa. Questo legame era, purtroppo diciamo era, testimoniato dal museo del calcio che proprio al Deepdale, lo stadio del Preston North End, aveva sede, sede che oggi invece è stata spostata 27 miglia più a sud, a Manchester, nuova capitale del calcio ma senza quel retrogusto romantico che aveva Preston. Il Preston North End è dunque simbolo della città, probabilmente la sua espressione più famosa, che andiamo a trattare.

PNE_FCPreston North End Footbal Club
Anno di fondazione: 1863
Nickname: the Lilywhites
Stadio: Deepdale, Sir Tom Finney Way, Preston
Capacità: 23.408

Il Preston North End nasce nel 1863 come cricket club: l’anno, tuttora preso come punto di partenza della storia, riguarda infatti la fondazione del club, che si è dedicato al calcio solo successivamente, come vedremo. Nell’estate del 1863 venne disputato il primo incontro di cricket del neonato team, che si tenne a “The Marsh” (la palude), un lembo di terra a ridosso del fiume Ribble nei pressi di Ashton-on-Ribble, per l’appunto. Ashton si trovava nella zona nord-ovest della città di Preston, la zona originaria della squadra che proprio a questo fatto deve il suffisso “North End”. Il trasferimento nella zona conosciuta come Deepdale non intaccò questa specificità geografica, visto che anch’essa si trova nel nord dell’abitato di Preston. Tornando alle vicende del club, va segnalato che, per supportare i costi di gestione della squadra di cricket (i membri si autotassavano di 2 pence a settimana) venne deciso che come secondo sport si sarebbe praticato il rugby, decisione che venne presa nel 1877, due anni dopo il trasferimento a Deepdale (1875). Una scelta fallimentare, visto che in città esisteva da anni un’altra squadra, il Preston Grasshoppers, la cui fama era inattaccabile dal neonato team rugbistico del North End. Questa volta saggiamente, venne deciso di adottare un altro sport che si stava diffondendo a macchia d’olio specialmente nel nord del Paese: il football, e come vedremo (ma come sapete) le cose andranno diversamente in questo caso. Ottobre 1878, il Preston North End giocò la prima partita di calcio della sua storia: una sconfitta per 0-1 contro l’Eagley FC. Il calcio prese piede, sebbene il cricket rimanesse come riempitivo nei mesi estivi, anche se i risultati tardarono arrivare, diciamo così: quando incontrarono il Blackburn Rovers la partita terminò 0-16, risultato quasi rugbistico. C’era da lavorarci su, insomma.

L’uomo della provvidenza si chiamava William Sudell, nativo di Preston, ex giocatore e poi presidente del club. Intuendo le potenzialità di quel meraviglioso giochino che chiamiamo calcio, decise di investire forze e denaro  per portare a Preston giocatori di alto livello, pescando prevalentemente in Scozia, abitudine peraltro diffusa all’epoca; l’offerta formulata da Sudell consisteva in una quota per ogni match giocato a cui andava aggiunto un posto di lavoro nell’area di Preston, anche questa pratica comune specie nel Lancashire. Insomma, un semi-professionismo che suscitò le ire di alcuni club, tra cui l’Upton Park che giunse a Preston per un match di FA Cup 1884. Il North End uscì dalla coppa, ma trovò l’appoggio di altre 36 squadre del nord che minacciarono l’abbandono della Football Association per crearsi la propria associazione; la FA fu così costretta a legalizzare il professionismo: era il 1885, e niente sarebbe stato più come prima. Sulla spinta di tale decisione, infatti, presero forma le idee di creare leghe comprendenti le più importanti squadre del Paese, la principale delle quali fu la Football Association, fondata nel 1888 per iniziativa di un dirigente dell’Aston Villa e a cui venne invitato anche il Preston North End. D’altronde era impossibile da escludere la squadra del Lancashire, che aveva già mostrato in FA Cup la forza del proprio undici, un undici che passerà alla storia come The Invincibles e questo dice praticamente tutto: Nick e Jimmy Ross, David Russell, Geordie Drummond, tutti scozzesi, tutti tremendamente abili col pallone tra i piedi. A loro si aggiungevano alcuni giocatori locali, come Bob Holmes e Fred Drewhurst.

Nemmeno il tempo di una stagione e il Preston North End entrò subito nella storia del calcio inglese, vincendo il primo campionato di Football League senza nemmeno una sconfitta (solo l’Arsenal riuscirà a eguagliare il primato più di un secolo dopo) a cui aggiunse anche la FA Cup, completando così il primo Double della storia. Tra l’altro la coppa, vinta in finale per 3-0 contro il Wolverhampton Wanderers, vide il Preston non subire nemmeno un goal, questo sì il vero record ineguagliabile. Il campionato venne conquistato anche la stagione successiva, primo back-to-back della storia ma anche ultimo titolo per i Lilywhites, che conosceranno da lì in poi solo secondi posti (ben sei). Prima di continuare però, va reso omaggio agli Invincibles, un undici che da lì in poi verrà smantellato ma che ha segnato la storia del club e del calcio, elencando come esempio la formazione che conquistò la FA Cup 1889:

Robert Mills-Roberts (WAL)
Bob Howarth (ENG)
Bob Holmes (ENG)
George Drummond (SCO)
David Russell (SCO)
Johnny Graham (SCO)
Jack Gordon (SCO)
Jimmy Ross (SCO)
John Goodall (ENG)
Fred Drewhurst (ENG)
Sam Thomson (SCO)

Formazione, ovviamente, il mitico 2-3-5 tanto in voga all’epoca.

797px-Preston_North_End_in_1888-89,_the_first_Football_League_champions

La squadra del double

Come dicevamo, fu l’ultimo titolo per il PNE, per una crescita degli avversari unita al declino del mitico team degli invincibili, e nel 1893/94, dopo tre secondi posti, il Preston si trovò addirittura a dover affrontare lo spareggio salvezza contro la terza classificata della Division Two, il Notts County, sconfitto 4-0 al Deepdale. Come detto gli invincibili lasciarono pian piano il Lancashire: Ross firmò per l’Evertom, Thomson per il Wolverhampton Wanderers, Goodall se ne andò al Derby County; peraltro Ross stesso, che tornò a Preston dopo una sola stagione, morì di tubercolosi. Insomma, anche tragedie, come la morte di un altro invincibile, Dewhurst. Nel mentre anche il proprietario, il già citato Sudell, perse il controllo del club. Il club iniziò così un’altalena che nel periodo precedente alla prima guerra mondiale lo vide più di una volta sprofondare in seconda divisione e risalire in prima, in quello che viene ricordato come il periodo yo-yo. Il pubblico di Preston però apprezzava il football, e le presenze sugli spalti aumentavano di stagione in stagione.

Il periodo tra le due guerre fu, all’inizio, pessimo: il PNE si ritrovò in Division Two e questa volta ci rimase a lungo (nove stagioni), anche se, nel mentre, arrivò un’inaspettata finale di FA Cup. Nel 1922 i Lilywhites scesero infatti in campo a Stamford Bridge contro l’Huddersfield di Herbert Chapman: fu l’ultima finale lontano da Wembley, che i Terriers vinsero con un goal di Smith su rigore, che bucò l’occhialuto (!) portiere del Preston, James Mitchell. Saltiamo qualche passaggio nella narrazione perchè, incredibilmente, la stessa finale si ripetè sedici anni dopo, questa volta a Wembley, un anno dopo un’altra finale persa, in quell’occasione contro il Sunderland. Stesso risultato della finale di sedici anni prima, sempre un goal su rigore, ma invertito, e fu il Preston ad alzare il trofeo sul filo del rasoio, visto che Mutch segnò il rigore decisivo al 119′ minuto, un soffio prima della fine. Fu l’ultimo trofeo importante nella storia del club. Nel frattempo i Lilywhites non solo erano tornati in massima serie, ma potevano contare su un team nuovamente competitivo, ovviamente pieno di scozzesi (ben 7 su 11 in quella finale) tra cui un certo Bill Shankly (gli altri erano Andy Beattie, Smith, Mutch, “Bud” Maxwell, Bobby Beattie, Hugh O’Donnell): un’abitudine, quella di guardare a nord del confine, che dalle parti di Deepdale non persero. Ma le buone notizie giungevano anche dal fronte delle giovanili, dove un nucleo di ragazzi di talento spingevano per trovar spazio in prima squadra. La seconda guerra mondiale rimandò di qualche anno il loro esordio.

Tom Finney, The Splash

Tra questi ragazzi vi era anche Thomas Finney, anzi Sir Thomas Finney. Nativo di Preston, classe 1922, fece il suo esordio “solo” nel 1946 a causa della guerra, in tempo per fare la storia del club (giocò tutta la carriera con la maglia del Preston) e della Nazionale con cui giocherà 76 partite. Tom Finney, che ora, a 91 anni, è presidente di un club di non-league, il Kendal Town, rimarrà famoso anche per una foto, “the splash”, da cui ha tratto ispirazione lo scultore Peter Hodgkinson per realizzarne la statua posta fuori da Deepdale. L’impatto di Finney sulla storia del PNE è tale che, seppur trattandosi di un periodo senza trofei, la “Tom Finney Era” rimane ben impressa nel cuore dei tifosi, così come il talento del giocatore che è ben riassunto da una battuta, che circolava in quel periodo, che asseriva come Finney dovesse chiedere uno sconto sulle tasse, visto che aveva 10 dipendenti (i suoi compagni di squadra, che in sua assenza parevano persi), Oddio, a dirla tutta Finney fu vicinissimo ad un certo punto a lasciare Preston, direzione…Palermo, che se avete presente Preston e Palermo non sono esattamente la stessa cosa; l’allettante offerta dei rosanero (130 sterline al mese, 10.000 sterline per la firma, un auto e una casa) fu però respinta dal club, nonostante lo stesso giocatore avesse chiesto di valutarla. Per fortuna venne rifiutata, e l’epoca di Finney si chiuse con due secondi posti in campionato e una finale persa in FA Cup (1954, 2-3 contro il WBA).

Fu l’ultimo momento di vera gloria per il club, che iniziò un lento ma inesorabile declino. Nel 1961 venne salutata la massima serie (un anno dopo il ritiro di Finney), e da allora il PNE aspetta ancora di ritornarvi, mentre nel 1964 l’ultimo acuto in FA Cup vide il Preston sconfitto, nuovamente per 2-3, dal West Ham United di Moore, Hurst e compagnia. Ma il declino era ormai irreversibile, e nel 1970 il club conobbe l’onta della terza divisione. Nel libro “Preston North End: 100 years in the Football League” Dave Russell spiega il declino del club principalmente per un fattore di stipendi, con l’abolizione del tetto salariale che da quel momento impedì ai club meno ricchi di poter competere. Un sali-scendi tra seconda e terza serie, alcuni manager dal nome “importante” come Bobby Charlton (la cui avventura non fu fortunata) e Nobby Stiles (che invece ottenne una promozione), peraltro compagni di squadra in quel PNE (Sir Charlton chiuse in pratica la carriera lì, anche se fece ancora 3 presenze nel Watford). Il declino toccò il suo punto massimo nella stagione 1984/85, dopo che il club diverse volte finì sull’orlo del baratro quell’anno infatti vi precipitò, e si trovò a calcare i palcoscenici non prestigiosissimi della Division Four. E nel 1986 il PNE concluse addirittura al penultimo posto della quarta serie, costringendo il club a chiedere la ri-elezione in Football League. Momento bassissimo, dunque: il club poteva solo rialzarsi.

FA Cup 1938

John McGrath, manager per la stagione successiva, fece proprio questo, conquistando la promozione in Division Three, con una strepitosa forma casalinga che molti ritengono essere stata dovuta alla superficie sintentica del Deepdale, preparata proprio in tempo per la stagione 1986/87 (e rimossa nel 1993). McGrath riuscì quasi nel tentativo di ottenere una seconda promozione, ma la sconfitta in semifinale di playoff contro il Port Vale mise fine al sogno di un ritorno in Division Two e al regno del manager, che lasciò poco dopo. Quella dei playoff sembrò essere una maledizione per il PNE, che proprio ai playoff uscì sconfitto dapprima contro il Wycombe Wanderers (guidato da Martin O’Neill) nella finale del 1992, e in seguito contro il Bury nel 1995 (semifinale), nell’anno in cui David Beckham giocò in prestito proprio con la maglia Lilywhite. I problemi comunque non tardarono ad arrivare, e la situazione finanziaria, sempre precaria, sembrò sul punto di esplodere quando provvidenzialmente il gruppo BAXI rilevò il club nello stesso 1995. Dalla nuova proprietà ne trasse beneficiò anche Deepdale, che vide iniziare la necessaria opera di ristrutturazione. La promozione di First Division arriverà però solo nel 2000, due stagioni dopo la nomina di David Moyes a manager.

E proprio con il futuro manager dell’Everton in panchina il PNE sembrò poter ambire alla Premier League, che per il club sarebbe stata una novità assoluta, ma ancora una volta furono i playoff a mettere fine ai sogni dei tifosi, e nel caso specifico la finale persa contro il Bolton Wanderers. Venne anche aperto, in quella stagione, il National Football Museum. Il lavoro di Moyes (chiamato alla guida dei Toffees) venne continuato, dopo il contestato regno di Craig Brown, da Billy Davies. Anche per Davies fatali furono i playoff: nel 2005 perse la finale contro il West Ham United, la stagione successiva la semifinale contro il Leeds United. La Premier League sembrava un sogno irrealizzabile, cosa che purtroppo si è confermata ad oggi, visto che, nel frattempo, non solo il Preston ha abbandonato la speranza di approdare in Premier, ma al contrario è tornato in terza serie. Da segnalare nel mentre la convocazione (stagione 2006/07) di David Nugent in nazionale, visto che si tratta della prima volta di un giocatore Lilywhite con la casacca dei tre leoni dai tempi di Finney.

Nugent, l’ultimo lilywhite a vestire la casacca della nazionale

Chiudiamo con il simbolo e colori. In entrambi i casi, il Preston North End non ha mai variato molto. Per quanto riguarda i colori, dopo una maglia a righine orizzontali bianco-blu e una a righe verticali bianco rosse, dal 1888 la divisa ufficiale prevede maglia bianca e pantaloncini blu (salvo alcune occasioni in cui questi furono bianchi). Anche per il simbolo c’è stata continuità, con l’agnello, simbolo del borough di Preston, da sempre a contraddistinguere il club. Nella sua prima versione l’agnello e le lettere “PP” (princeps pacis in latino, ma per alcuni traducibili anche con “Proud Preston”, visto che come riporta The Beautiful History “Preston has a reputation for pride because in the eighteenth century it was a centre of fashionable society“) erano corredate dalla rosa rossa del Lancashire, che poi sparì nelle versioni successive. Sulla divisa da gioco, a metà degli anni ’70, al posto dell’agnello comparve la sigla P.N.E.F.C., che rimase anche negli anni successivi affiancata però all’agnello, che tornò sulle casacche bianche del club. Chiudiamo con una curiosa usanza che dal 2005 portano avanti i tifosi del Preston: il “Gentry day”, una partita della stagione in cui i tifosi indossano la classica bombetta in memoria di chi non c’è più, tifosi ed ex giocatori deceduti nell’ultimo anno, e che deve il suo nome alla definizione di un manager del PNE degli anni ’70, Alan Ball, che nell’elogiare l’ampio seguito in trasferta disse: “Preston fans are the best, they’re the gentry“. Nonostante la serietà della ricorrenza, il momento è festoso, di aggregazione, di unione, ed è forse il modo migliore per ricordare chi se n’è andato col PNE nel cuore.

Gentry Day

The majority of teams aren’t invincible, but some are. The majority of clubs are just clubs, some however are institutions“. Ci sembra la conclusione più degna per la storia del Preston North End, un club che più degli altri incarna l’essenza stessa di Football, con la F maiuscola, senza la gloria del Manchester United o il fascino seducente di Anfield, ma con quell’alone di leggenda che rende tutto così magico.

P.S. per tutti i tifosi italiani, simpatizzanti, coloro che vogliono saperne di più sul club il punto di riferimento è Preston North End G.B.S., il club italiano del Preston: http://prestonnorthendgbs.blogspot.it/

Trofei

  • First Division: 1889, 1890
  • F.A. Cup: 1889, 1938

Records

  • Maggior numero di spettatori: 42.684 v Arsenal (Division One, 23 Aprile 1938)
  • Maggior numero di presenze in campionato: Alan Kelly, 447
  • Maggior numero di reti in campionato: Tom Finney, 187

Fonti: Wikipedia; Preston North End History; The Beautiful History; Historical Football Kits

Viaggio nella Londra del calcio: la mappa completa delle squadre

Cliccate sull’immagine per vederla a dimensione originale.

Ovviamente ci sono delle precisazioni da fare. Il Grays tecnicamente non è squadra londinese, ma per motivi di stadio si ritrova a giocare entro i confini della Greater London. Il Fisher lo abbiamo messo a Surrey Docks Stadium, anche se per ora gioca a Champion Hill. Il Wealdstone nasce come squadra del borough di Harrow, ma anch’essa per motivi di stadio gioca a Hillington

Viaggio nella Manchester del calcio: parte seconda, Manchester United

Manchester_United_FC_crest.svgManchester United Football Club
Anno di fondazione: 1878
Nickname: the Red Devils
Stadio: Old Trafford, Manchester M16
Capacità: 75.765

Ed eccoci alla fine del nostro viaggio, ultima tappa nell’ultima città affrontata, una tappa importante perchè andiamo a conoscere da vicino la squadra inglese più famosa al Mondo, la squadra di Busby, di Best, di Law, di Charlton, di Cantona, di Beckham, di Scholes, di Giggs, di Rooney, di Cristiano Ronaldo e di Sir Alex Ferguson tra gli altri. Insomma, il Manchester United, che per quanto ci riguarda abbiamo conosciuto da vicino a Febbraio in una fredda mattina mancuniana, con la nebbia che avvolgeva la statua della United Trinity appena fuori Old Trafford e un temerario venditore di sciarpe (non ufficiali, ma stupende, quelle classiche old style) beveva la sua immancabile birra. Fermata Old Trafford del metrolink, un miglio a piedi (l’Old Trafford più vicino, come impianto, alla fermata è quello del Lancashire County Cricket Club) e si arriva allo stadio dei Red Devils, che peraltro è dotato anche di una stazione ferroviaria che definire vicina è riduttivo. Insomma, ben collegato e accessibile, e d’altronde qui vengono da tutto il Mondo, come ad Anfield ma forse di più perchè dai primi anni ’90 ad oggi è lo United a dettare legge in Inghilterra e, meno ma con pur sempre due Champions vinte, in Europa, con il conseguente numero di tifosi sparsi per il globo che è aumentato a dismisura. Un anziano mancuniano ci ha accompagnato nel tour dello stadio, esperienza fantastica perchè nei suoi occhi si leggevano anni di ricordi lontani, non dell’era Premier, ma di quella dei Busby Babes, della già citata trinità etc., e proveremo noi in piccolo a farvi a nostra volta da guida nel mondo dello United.

Il Manchester United nasce, come moltissimi altri casi, con un altro nome: Newton Heath LYR Football Club. Newton Heath è un luogo, luogo in cui era ubicato un deposito di treni, e questo spiega il resto della denominazione originale, della LYR, la Lancashire e Yorkshire Railway: furono quindi dei ferrovieri a fondare il club, con il concreto aiuto della compagnia ferroviaria che mise a disposizione fondi e campo da gioco, ubicato in North Road nemmeno troppo per caso vicino ai binari del treno. Era il tempo delle amichevoli, i cui resoconti si sono persi nelle nebbia della storia, almeno fino ai primi anni ottanta, quando sappiamo per certo che il Newton Heath LYR prese parte alla Lancashire Cup (1883/84), venendo tuttavia subito eliminato dalle riserve del Blackburn Olympic. L’anno successivo prese parte alla Manchester & District Challenge Cup, competizione in cui giunse in finale in diverse occasioni, mentre nel 1886 il club, in crescita come testimoniavano firme di giocatori di buona reputazione, prese parte per la prima volta all’FA Cup, a cui è legato un fatto curioso che merita la pena di essere evidenziato. Trasferta sul campo del Fleetwood Rangers, partita che terminò 2-2: il capitano del Newton Heath, Jack Powell, rifiutò di giocare i supplementari, e la partita venne data vinta a tavolino al padroni di casa. Il club protestò presso la F.A., proteste vane che portarono lo stesso club ad autosospendersi dalla competizione per due edizioni.

Nel frattempo il 1888 vide la nascita della Football League, competizione da cui il Newton Heath (che in questi anni vide scemare il legame con la compagnia ferroviaria, perdendo il “LYR” dal nome, nonostante alcuni giocatori continuassero a essere dipendenti delle ferrovie) rimase escluso: il club divenne quindi membro fondatore della Combination, una delle leghe che fiorirono all’epoca, ma che ebbe breve durata, tanto che nel 1889 il Newton Heath e altri club non ammessi alla Football League fondarono la Football Alliance. Quando nel 1892 la Alliance si unì alla Football League, il Newton Heath venne finalmente ammesso alla competizione più importante: in quei 3 anni il sogno del club non venne mai meno, tentando ogni anni di farsi eleggere, senza successo. Se non altro i mancuniani furono ammessi direttamente alla First Division, da cui si salvarono dopo essere giunti ultimi tramite lo spareggio contro il Small Heath (futuro Birmingham City), vincitore della Second Division. Nel 1893 il club si trasferì da North Road al nuovo impianto di Bank Street (Clayton), situato vicino a un’industria chimica che, secondo la leggenda, emetteva fumi tossici quando gli avversari si portavano in vantaggio, per intossicarli. Evidentemente la strategia non funzionò, visto che il Newton Heath giunse nuovamente ultimo e, questa volta, venne sconfitto nello spareggio dal…Liverpool, primo atto di una rivalità secolare. Il Newton Heath, ovvero il futuro Manchester United, divenne così il primo club nella storia della Football League a retrocedere. Fu l’inizio del declino che portò alla svolta, storica, del cambio di nome.

Un’immagine del Newton Heath

Il Newton Heath rimase impantanato in Second Division, sommerso non solo dagli scarichi della suddetta fabbrica chimica, ma anche dai debiti, una situazione che si fece insostenibili nei primissimi anni del nuovo secolo. Nel 1901 venne organizzata una raccolta fondi a St James Hall, che diede però un esito solo parziale tanto che, nel 1902, il club si trovava sull’orlo dell’abisso. Il Manchester Guardian riportava testualmente:
Attention was directed to the Second League by the unusual experience of Newton Heath. The club is financially in a bad way. A winding up order to meet a debt of £242 precipitated matters last week and no arrangements could be made for playing the game fixed for Saturday. One hears that a new club will be formed out of the ashes of the old one, but this has not been decided definitely”.
La partita si giocherà alla fine, ma le difficoltà rimasero. L’uomo della provvidenza però si chiamava John Henry Davies, il cui primo incontro con capitano del Newton Heath, Stafford, rasenta la leggenda, che vuole che, durante la raccolta fondi del 1901, il cane San Bernardo del giocatore fuggì, e venne ritrovato dalla figlia di Davies. Un secondo incontro tra i due ebbe esito positivo e Davies si mise a capo di un gruppo di colleghi imprenditori e rilevò il club, divenendone presidente il 24 Aprile di quell’anno. I nuovi proprietari optarono anche per il cambio di nome, visto il perduto legame con Newton Heath, e decisero di rinominare il club “Manchester United Football Club”, cambiando nello stesso istante i colori sociali in rosso e bianco. E le fortune del club, come girarono negativamente una decina d’anni prima, questa volta presero una piega decisamente positiva.

Il club si dotò del suo primo manager (anche se come visto in altre puntate, la posizione era quasi più amministrativa che “pratica”) nella persona di Ernest Mangnall, il quale condusse la squadra a ottime, ma non decisive per la promozione, campagne di Second Division; promozione che finalmente arrivò nel 1906. Come abbiamo visto nel pezzo dedicato al Manchester City, Mangnall fu lesto a mettere sotto contratto alcuni giocatori dei Citizens, finiti in un brutto scandalo di partite truccate: tra questi Billy Meredith, Herbert Burgess, Sandy Turnbull, Jimmy Bannister. Gli acquisti di Mangnall non tardarono a dare i risultati sperati, e nel 1908 il Manchester United vinse il primo di una lunga serie di titoli inglesi, la più lunga (19, contro i 18 del Liverpool). L’anno dopo un goal di Turnbull regalò anche la prima FA Cup, in finale contro il Bristol City. Ma il 1909 fu anche un anno decisivo, visto che Davies mise mano al portafoglio e si assicurò un appezzamento di terreno in quel di Trafford, ricavandone quello che diventerà e resta uno degli stadi più famosi del Mondo: Old Trafford, che merita e avrà uno spazio a parte. Mangnall mise in bacheca un altro titolo nel 1911, oltre a due Charity Shield, tra cui la prima in assoluto (1908), prima di lasciare direzione Manchester City (il percorso inverso rispetto ai giocatori che acquistò qualche anno prima). Il club cominciò un lento ma inesorabile declino che culminò, nel 1915, con lo scandalo per una partita truccata contro il Liverpool, e la guerra non impedì alla FA di squalificare i giocatori coinvolti a vita. Guerra che si portò via Turnbull, ucciso sul fronte francese.

Billy Meredith

Nel frattempo il club si era dotato del suo primo, vero manager (Jack Robson), ma questo non servì a evitare la retrocessione che inevitabile giunse al termine della stagione 1921/22: ci vollerò tre stagione prima di rivedere lo United in First Division, ma i tempi di Mangnall erano comunque lontani. Davies morì nel 1927, e quattro anni più tardi il club, con l’ultimo posto in classifica, conobbe nuovamente la Second Division, solo che stavolta le cose non si sistemarono e tornò ad aleggiare l’ombra del fallimento, che venne evitato solo grazie all’intervento di James Gibson, uomo d’affari locale coinvolto da un giornalista sportivo nel salvataggio del club (1933). Se le cose finanziariamente si risolsero, sportivamente lo United andò incontro nel 1934 alla sua peggior stagione di sempre, con il penultimo posto in Second Division evitato solo all’ultima giornata grazie a una vittoria per 2-0 contro i “colleghi disperati” del Millwall, terzultimi e scavalcati dai mancuniani nell’occasione. Nel 1936, tuttavia, la promozione riscattò il disastro di due stagioni prima, e sebbene il club fu immediatamente e nuovamente retrocesso, riconquistò la promozione al primo tentativo, inaugurando un periodo di 36 anni in massima serie. Il pubblico tornò anche ad avvicinarsi al club, che evitò la concorrenza del Manchester Central grazie ad un’alleanza col City volta a negare al Central l’ingresso in Football League. La guerra interruppe le competizioni poco dopo la promozione in First del Manchester United, ma al termine di essa nulla sarà mai più come prima, per lo United e per la storia del calcio inglese.

Nel 1945 infatti, mentre gli alleati si riunivano a Yalta, Gibson incontrò Matt Busby, ex giocatore del City che intratteneva però buoni rapporti con un dirigente dello United, Louis Rocca, il quale lo segnalò al presidente. Busby pretese e ottenne alcune clausole che cambiarono per sempre la figura del manager in Inghilterra: essere l’unico responsabile nella scelta della squadra titolare, degli allenamenti e dell’acquisto e delle cessioni dei giocatori. Adesso ci sembrano cose banali, all’epoca invece non lo erano affatto, e Busby divenne il plenipotenziario a Old Trafford, riuscendo peraltro discretamente bene nel suo ruolo, no? Tre secondi posti consecutivi, una FA Cup nel 1948 e il titolo del 1952 fu il biglietto da visita con cui si presentò Busby ai tifosi, ma come si dice in questi casi il meglio doveva ancora venire. I titoli back-to-back del 1956 e del 1957, conquistati con una squadra dall’età media bassissima (22 anni) fecero partorire alla stampa (Frank Nicklin del Manchester Evening News nello specifico) il termine di Busby Babes, che diventerà un caposaldo del football britannico e il fiore all’occhiello della gestione Busby. Ma quella dei Babes non è una favola a lieto fine: il 6 Febbraio 1958, di ritorno da un quarto di finale di Coppa dei Campioni a Belgrado (il Manchester United fu la prima squadra inglese a partecipare alla competizione) l’aereo che trasportava la squadra fece scalo a Monaco di Baviera per un rifornimento, qualcosa andò storto e, all’ennesimo tentativo di decollo, l’aereo si schiantò. Persero la vita otto componenti di quella magnifica squadra: Roger Byrne (28), Eddie Colman (21), Mark Jones (24), Duncan Edwards (21), la stella e di cui abbiamo parlato QUI, Billy Whelan (22), Tommy Taylor (26), David Pegg (22), Geoff Bent (25); due, Blanchflower e Berry, non poterono più giocare per le conseguenze dello schianto. Si salvò, oltre a Kenny Morgans che però, dopo l’incidente, non tornò mai sui livelli precedenti, un giovane Bobby Charlton (20), oltre a Busby (il quale passò due mesi in ospedale): divenne la colonna portante della rifondazione insieme a un altro sopravvissuto, Bill Foulkes.

Il memoriale delle vittime di Monaco posto a Old Trafford

Solitamente rifondare una squadra significa ringiovanirla, in questo caso invece si trattava di ricostruire da zero o quasi un club, operazione difficilissima tanto più che si trattava di un club sulla cresta dell’onda. Alcuni acquisti giovani diedero però risultati quasi immediati, tanto che nel 1963 il Manchester United vinse la FA Cup contro il Leicester City: tra questi acquisti, Denis Law, che con Charlton già nel club e George Best che avrebbe debuttato da lì a poco formerà la leggendaria United Trinity; senza dimenticare Nobby Stiles, Pat Crerand e compagnia. Vinsero il titolo nel 1964/65, grazie a una miglior media goal del Leeds United, e nel 1966/67, per poi coronare quell’epoca con il trionfo di Wembley sul Benfica di Eusebio nella finale di Coppa dei Campioni del 1968, la summa della carriera di Busby e della sua abilità di crescere talenti: solo due dei giocatori scesi in campo in quella finale vennero acquistati versando denaro. Carriera che si avviò alla fine nella stagione successiva (che vide la sconfitta in Coppa Intercontinentale contro l’Estudiantes), quando Busby annunciò di voler lasciare il ruolo di manager per assumere quello di General Manager; venne sostituito da Wilf McGuinness. Inutile dire che Busby è stato uno dei grandi del calcio britannico, un innovatore, un conoscitore del calcio e un abile scopritore di talenti, e che la posizione di manager come la conosciamo oggi fu forgiata in buona parte da lui. Ci piace ricordarlo con una frase di un’altra leggenda della panchina, Bill Shankly: “I’m not fit enough to polish Busby’s shoes“. Un gigante.

Il post-Busby fu traumatico per i Red Devils. McGuinness, Farrell, Docherty non riuscirono a mettere insieme risultati degni del predecessore; dovettero peraltro fronteggiare il declino di alcuni elementi chiave, oltre alle bizze di George Best, che annunciava ritiri un giorno salvo poi rimangiarsi la parola, anzi riberla, una battuta che ci concediamo sapendo il ben noto amore del nordirlandese per l’alcol (“I’ve stopped drinking, but only while I’m asleep“). Fattostà che Best, alla fine, lascerà il club nel 1974, stagione nella quale lo United conobbe nuovamente, dopo anni, l’onta della retrocessione, a cui contribuì, anche se non in modo decisivo, un goal di Law in un derby (Law era passato al City quella stagione, nell’ambito del programma di ringiovanimento del club attuato da Docherty). Ironia del destino…Docherty tuttavia rimase in carica, e continuò con i suoi propositi di rinnovare il club, tagliando definitivamente con l’ingombrante passato dell’era Busby, questa volta riuscendo nell’intento: promozione al primo tentativo, vittoria che sembrava possibile in campionato (terminò terzo), finale di FA Cup (sconfitta contro il Southampton). LA FA Cup venne vinta tuttavia nel 1977, sconfiggendo un Liverpool che mirava al treble (segnatevi questo termine….). Poi…poi Docherty iniziò una relazione con la moglie del fisioterapista della squadra, annunciando l’intenzione di divorziare e sposarla; il club gli intimò di dimettersi e, quando non lo fece, lo licenziò. Ma siccome non era una motivazione valida, giustificò l’allontanamento del manager con una poco credebile storia di biglietti per la finale di coppa che Docherty avrebbe elargito a parenti e amici dietro compenso. La vicenda si concluse così però, visto che Docherty non intraprese mai una causa contro il club.

The United Trinity

Per sostituire Docherty venne chiamato Dave Sexton (recentemente scomparso), autore di miracoli al Chelsea e soprattutto al QPR, con il secondo posto della stagione 1975/76; nelle quattro stagioni in carica a Old Trafford, tuttavia, Sexton, con all’attivo un secondo posto e una finale di FA Cup persa, non riuscì a conquistare la fiducia dei tifosi, e lasciò il club nel 1981. Per rimpiazzarlo vennero fatti nomi “pesanti”, come quello di Brian Clough o quello di Bobby Robson, ma a spuntarla alla fine fu Ron Atkinson, manager del West Bromwich Albion. “Big Ron” portò a Old Trafford, proprio dal suo ex team, Bryan Robson e Remi Moses, e soprattutto riportò in bacheca un trofeo, la FA Cup del 1983. Dalle giovanili inoltre giunsero in prima squadra Norman Whiteside e Mark Hughes, che vincerà il premio di miglior giovane dell’anno nel 1984/85: entrambi furono protagonisti della nuova vittoria in FA Cup, contro l’Everton, proprio nel 1985. Ma il titolo continuava a sfuggire, anche nel 1985/86 quando lo United partì vincendo 10 partite consecutive terminando però quarto; Hughes venne ceduto al Barcelona e Atkinson cominciava a sentire la sua panchina traballare. Rimase in carica per la stagione successiva nonostante rumors che lo volevano in partenza, ma un disastroso inizio di stagione causò il suo licenziamento. Era il 6 Novembre 1986, e quel giorno venne annunciato il sostituto di Atkinson, un allenatore emergente scozzese che aveva portato una squadra sconosciuta ai più, l’Aberdeen, alla gloria europea (Coppa delle Coppe): Alex Ferguson.

Ferguson ereditò una squadra già costruita da Atkinson, che condusse a un anonimo undicesimo posto, concentrandosi maggiormente sulla riorganizzazione del settore giovanile sulla scia di un illustre predecessore come Busby. Durante la sua prima campagna trasferimenti acquistò Viv Anderson e Brian McClair e, nella sua prima stagione completa alla guida dei Red Devils, portò la squadra a un secondo posto finale; sembrava il primo passo verso il titolo, invece si rivelò un fuoco di paglia visto che, nelle due stagioni successive (1988/89 e 1989/90) il Manchester United terminò rispettivamente undicesimo e tredicesimo, a cinque punti dalla retrocessione: a quanto si dice oggi solo la vittoria della FA Cup 1990 contro il Crystal Palace salvò il posto a Ferguson. Ma da lì in avanti i Red Devils non si fermarono più: vinsero la Coppa delle Coppe 1990/91, sconfiggendo il Barcelona, la Coppa di Lega 1992 contro il Nottingham Forest dopo averla persa l’anno precedente, e iniziò la raccolta dei frutti cresciuti nel settore giovanile, primo fra tutti Ryan Giggs che verrà nominato miglior giovane del 1991/92 (in cui il Manchester United perse il titolo a vantaggio del Leeds United). Ma non mancava molto per riportare il titolo nella Manchester “rossa”. Mancava, ad esempio, un talento che rispondeva al nome di Eric Cantona, acquistato proprio dal Leeds: il titolo tornò a Old Trafford dopo 26 anni, nella prima stagione della neonata Premier League.

Venne acquistato dal Nottingham Forest un irlandese dalla faccia da duro, tal Roy Keane, e venne rivinto il titolo, questa volta accompagnato dalla FA Cup (4-0 al Chelsea) il che significò il primo double della storia dei Red Devils. Titolo che sfuggì invece nella stagione successiva all’ultima giornata, e che prese la via di Ewood Park; tuttavia in quel 1994/95 (segnato dalla squalifica di Cantona per il famoso calcio al tifoso del Crystal Palace) altri giovani dell’academy vennero stabilmente integrati al team, di cui costituiranno il fulcro per gli anni a venire: i due Neville, Paul Schole, Nicky Butt, David Beckham, a cui si unì Andy Cole, acquistato per 7 milioni di sterline dal Newcastle United. Con questo gruppo di giovani, e nonostante le cessioni di Paul Ince e Mark Hughes, lo United, sottovalutato dai più, vinse nuovamente campionato e FA Cup. “You’ll never win anything with kids” ebbe a dire Alan Hansen, volto noto di Match of the Day ma non certamente famoso per questa incauta profezia. Il Manchester United vinse nuovamente il titolo nel 1996/97, nonostante il ritiro di Eric Cantona, che venne però adeguatamente sostituito, almeno in quanto a contributo di goal, da Ole Gunnar Solskjaer e Teddy Sheringham: era il quarto titolo in cinque stagioni. Il campionato sfuggì la stagione successiva, che vide il prevalere dell’Arsenal, stagione nella quale giunsero a Manchester Jaap Stam, Jesper Blomqvist, e Dwight Yorke, che formerà con Cole la famosa coppia dei “Calypso Boys”.

E si arriva, così, alla stagione 1998/99, la migliore nella lunga storia dei Red Devils e la migliore per una squadra inglese. Di sempre. Campionato, ma ormai questa era una consuetudine; FA Cup, e anche qui ormai ci si era abituati. Ma soprattutto la Coppa dei Campioni/Champions League, vinta peraltro nel modo più indimenticabile di sempre con due goal in extra-time contro un Bayern Monaco che già pregustava il trionfo. Alex Ferguson ebbe a commentare con un immortale “football, bloody hell!” e niente sarà più lo stesso, Alex divenne Sir Alex e il Manchester United diventerà la squadra inglese per eccellenza del nuovo millennio, nel quale continuerà a inanellare successi compresa un’altra Champions League nel 2007/08 e nel quale supererà il Liverpool in quanto a titoli vinti. Come sempre gli anni recenti li saltiamo, sono bene o male conosciuti da tutti; basterà ricordare l’acquisto della società da parte dei Glazer (e la scissione conseguente nella tifoseria che porterà alla nascita dello United of Manchester), il susseguirsi di talenti (Rooney, Cristiano Ronaldo, Van Persie, Rio Ferdinand, Evra, etc) e l’eterna giovinezza di due campioni come Paul Scholes e Ryan Giggs. Ferguson nel frattempo rimane al timone della barca, anche se ultimamente escono fuori ogni stagione news sul suo possibile ritiro che, però, non avviene mai. Bene così, perchè abbiamo di fronte una leggenda, e sebbene tendiamo sempre a esaltare ciò che è passato, è bene ricordarsi che il Manchester United di Ferguson è una delle più grandi squadre inglesi di tutti i tempi, e lui uno dei più grandi manager. E basta questo per rendere un viaggio a Manchester meritevole di essere fatto…

L’evoluzione del logo

Il logo deriva originariamente dallo stemma cittadino, come già visto per il Manchester City. La nave simbolo dello Ship Canal, lo scudo con le tre strisce diagonali che derivano dalla famiglia Grelley, lords di Manchester e che ora è stato rimosso; il diavoletto venne invece incorporato nei primi anni ’70 in ragion del fatto che il club veniva soprannominato “Red Devils”. I colori originari erano giallo-verde, come ben si sa visto che le sciarpe con tali colori sono state rispolverate come forma di protesta verso i Glazer, ma per alcuni anni il Newton Heath indossò anche una divisa rosso/bianca, che diventeranno col cambio di nome i colori ufficiali del Manchester United. L’unica parentesi è rappresentata dagli anni ’20, in cui lo United sfoggiò un completo bianco con una V rossa; negli anni, poi, verrà introdotto anche il nero. Si concludono così, con la squadra più vincente d’Albione, i nostri viaggi; continueremo però a trattare la storia del club, professionisti e non, d’Inghilterra. Ma non avendo chiara ancora la destinazione, ci fermiamo per adesso qui, davanti alla statua della Trinity rivolta verso quella di Matt Busby.

Trofei

  • First Division/Premier League: 1907–08, 1910–11, 1951–52, 1955–56, 1956–57, 1964–65, 1966–67, 1992–93, 1993–94, 1995–96, 1996–97, 1998–99, 1999–2000, 2000–01, 2002–03, 2006–07, 2007–08, 2008–09, 2010–11
  • F.A. Cup: 1908–09, 1947–48, 1962–63, 1976–77, 1982–83, 1984–85, 1989–90, 1993–94, 1995–96, 1998–99, 2003–04
  • League Cup: 1991–92, 2005–06, 2008–09, 2009–10
  • F.A. Charity/Community Shield: 1908, 1911, 1952, 1956, 1957, 1965*, 1967*, 1977*, 1983, 1990*, 1993, 1994, 1996, 1997, 2003, 2007, 2008, 2010, 2011 (* condivise)
  • Coppa dei Campioni/Champions League: 1967-68, 1998-99, 2007-08
  • Coppa delle Coppe: 1990-91
  • Supercoppa Europea: 1991
  • Coppa Intercontinentale/Mondiale per Club: 1999, 2008

Record

  • Maggior numero di spettatori*: 76.098 v Blackburn Rovers (Premier League, 31 Marzo 2007)
  • Maggior numero di presenze in campionato: Ryan Giggs, 649 (ancora in attività)
  • Maggior numero di reti in campionato: Bobby Charlton, 199

* a Old Trafford; il record infatti spetta a una partita giocata a Maine Road

Viaggio nella Manchester del calcio / non-league football: FC United of Manchester

FC_UnitedFootball Club United of Manchester
Anno di fondazione: 2005
Nickname: United, Red Rebels
Stadio: Gigg Lane, Bury, Greater Manchester
Capacità: 11.840

Prima di parlare del Manchester United e concludere così il nostro viaggio, ci sembra giusto dedicare uno spazio a quella che potremmo definire una costola dello United stesso, ovvero il Football Club United of Manchester. Un club dalla breve vita, nato nel 2005 per iniziativa di un gruppo di tifosi dei Red Devils in aperta protesta contro l’acquisto del club da parte del magnate americano Malcolm Glazer. L’idea di fondare un club era già sorta nel 1998, quando si parlò di un interessamento di Rupert Murdoch per lo United, ma poi non se ne fece nulla, l’idea perse il suo significato e sfumò, fino a rinascere, appunto, nel 2005. Una serie di meeting nel Maggio del 2005, subito dopo l’avvenuto takeover da parte dei Glazer, si concluse con la formazione della squadra, sotto i consigli dei membri dell’AFC Wimbledon: il nuovo club, infatti, fu fondato per essere di proprietà dei tifosi, esattamente come i Dons londinesi. Più di 4000 persone, entro la scadenza del Luglio dello stesso anno, versarono la loro quota (si arrivò a 100.000 sterline). Nel frattempo c’era da scegliere un nome: si optò per FC United, ma la Football Association lo rifiutò in quanto considerato troppo generico; venne così indetto un sondaggio che vide prevalere la denominazione “FC United of Manchester” (tra le opzioni un curioso “Manchester Central”, come visto nel pezzo dedicato al City squadra esistita per un breve periodo negli anni ’30).

Il primo tassello venne messo con la nomina a manager di Karl Marginson, mancuniano con una vita da giocatore passata nelle squadre minori della Greater Manchester; fu poi la volta dei giocatori, per i quali vennero organizzati una serie di provini a cui si presentarono in 900, con 200 che superarono la pre-selezione e 17 che vennero scelti infine per giocare nel club. L’FC United of Manchester venne ammesso nella North West Counties Football League second division, decimo livello della piramide del football; come stadio venne scelto Gigg Lane, casa del Bury (club di Football League), anche se nel corso degli anni vennero disputate partite in altri impianti della Greater Manchester (Moss Lane di Altrincham, Bower Fold di Stalybridge etc). Colori, superfluo da dire, rosso-bianco-nero, gli stessi dei Red Devils, anche se è giusto precisarlo per non far confusione con le sciarpe giallo-verdi, indossate dai tifosi del Manchester United contrari a Glazer che seguono la squadra all’Old Trafford (un richiamo ai colori originari). La prima partita fu un’amichevole con il Leigh Railway Mechanics Institute, club che in precedenza aveva chiesto l’aiuto all’FC United in quanto in difficoltà economiche, e terminò 0-0.

La NWCFL (abbreviamo per comodità) fece in modo che la prima partita del club, in trasferta, avvenisse nello stadio più capiente della lega, quello del Leek County, in modo da misurare le presenze sugli spalti e organizzare le partite successive. 2.590 spettatori segnarono un record per il campionato, record destinato a essere battuto nei mesi successivi. Il 22 Aprile 2006, davanti a 6.023 spettatori, l’FC United si aggiudicò il campionato di second division, ottenendo così la promozione in division one. La stagione successiva, al titolo di division one che apriva le porte della Northern League, si aggiunse la coppa, la NWCFL Challenge Cup, mentre nell’FA Vase vennero eliminati al terzo turno (nella prima stagione non poterono partecipare in quanto il club venne fondato quando i termini per l’iscrizione erano scaduti). La terza promozione di fila arrivò nella prima stagione in Northern Premier League Division One, anche se in questo caso tramite playoff (in campionato terminarono secondi dietro al Bradford Park Avenue), nella stessa stagione dell’esordio in FA Cup, che terminò al primo round qualificatorio dopo la vittoria in quello preliminare. Dal 2008/09, sebbene si sia piazzato in tre stagioni su quattro in zona playoff, il club si trova in Northern Premier League Premier Division, e non è quindi riuscito a guadagnare la promozione in Conference North, che secondo gli obbiettivi programmatici sarebbe dovuta arrivare entro il 2009. Comunque, nel 2010, il secondo round di FA Cup, con il Brighton & Hove Albion di scena a Gigg Lane, è già un successo degno di nota (6.700 spettatori quel giorno).

La parte dedicata ai risultati sul campo l’abbiamo compressa perchè qui quello che ci interessa capire è il perchè che sta dietro a questo club, e analizzarne meglio il suo statuto “democratico”. Prima però, giusto dire che è in progetto la costruzione dello stadio della squadra, a Moston, un piano approvato dal consiglio cittadino dopo che un’altra soluzione, molto significativa (avrebbe portato il club a Newton Heath, luogo d’origine del Manchester United) venne bocciata. Ora, la prima cosa da sottolineare è questa: che il club forse più globalizzato d’Inghilterra, il Manchester United, conservi in se un nucleo forte e solido di tifosi legati più alla tradizione che agli affari del calcio moderno, un nucleo che si è opposto all’acquisto del club da parte di un magnate americano sia con le famose sciarpe giallo-verdi, sia con la fondazione dell’FC United of Manchester, che risulta quindi essere alla fine una sorta di preziosa testimonianza di legame con la propria squadra, una squadra la cui anima è stata in parte sacrificata sull’altare del football moderno. Come dire: questo club, per quanto piccolo, non ce lo porterete mai via. I tifosi dell’FC United sono per la stragrande maggioranza ancora tifosi dei Red Devils, per l’appunto: han solo voluto mettere insieme la loro passione in modo da preservarla da futuri sconvolgimenti; questo è il motivo dello statuto altamente democratico del club, nel senso del coinvolgimento di tutti nelle decisioni.

I membri, infatti, hanno diritto di voto sia nell’elezione dei componenti dirigenziali, sia nello stabilire i prezzi dei biglietti, sia nel design delle maglie da gioco, esempi di come sia sottoposta al voto la totalità degli argomenti. Un’organizzazione che sembra avere successo: la media attuale di 2.000 spettatori è buona, contando che si gioca a Bury, ma nella stagione inaugurale del club si fece addirittura meglio, piazzandosi al secondo posto nella classifica delle medie spettatori di non-league; in tal senso comunque il nuovo stadio dovrebbe aiutare. Il club accetta sponsorizzazioni, ma rifiuta che uno sponsor possa comparire sulla divisa da gara, altro segno di quel “ritorno alle origini” che caratterizza la vicenda dell’FC United; d’altronde, tra i principi, compare espressamente quello di essere un’organizzazione no-profit.

  1. The Board will be democratically elected by its members
  2. Decisions taken by the membership will be decided on a one member, one vote basis
  3. The club will develop strong links with the local community and strive to be accessible to all, discriminating against none
  4. The club will endeavour to make admission prices as affordable as possible, to as wide a constituency as possible
  5. The club will encourage young, local participation—playing and supporting—whenever possible
  6. The Board will strive wherever possible to avoid outright commercialism
  7. The club will remain a non-profit organisation

Rimane in ballo un problema: come è stata recepita dal Manchester United tale operazione? Beh, non benissimo a dire la verità. Sir Alex Ferguson ha liquidato la questione affermando che i fondatori dell’FC United non hanno dimostrato di essere veri tifosi dei Red Devils, ma solamente di essere affetti da un protagonismo che supera decisamente il loro tifo. Alcuni tifosi del Manchester United condividono questa visione, altri invece plaudono all’iniziativa. In realtà non vediamo che motivi ci possano essere per non apprezzarla: non creano, ovviamente, concorrenza al più importante club inglese; non sputano nel piatto in cui hanno mangiato, perchè come detto alcuni di essi ancora ci mangiano: le due squadre possono coesistere in parallelo. Hanno semplicemente dato forma a un disagio, dietro un impulso forse nostalgico, un disagio per la mercificazione del tifo e del mondo del calcio che si sta estendendo a livelli sempre maggiori (basterà ricordare il caso del Cardiff City, non esattamente il Liverpool). L’FC United of Manchester è un rifugio in cui possono riparare i nauseati dal mondo del calcio odierno: al posto della Champions c’è la Challenge Cup della North West Counties, ma volete mettere l’atmosfera genuina e “vera”? Senza contare il modello di club autogestito, un modello che l’AFC Wimbledon ha mostrato poter essere vincente e la cui strada altri club saranno, quasi obbligatoriamente, destinati a percorrere. Certo, senza ombra di dubbio un club che può pescare nel largo bacino di tifosi del Manchester United può avere più successo del Buxton o del Nantwich, e lo stesso AFC WImbledon ha avuto dalla sua tutti i tifosi abbandonati dal Wimbledon, sarebbe sintomo di perdita di contatto con la realtà non sottolineare ciò: un tifoso giapponese dei Red Devils è più facile sostenga con una donazione lo United of Manchester che un’altra squadra dello stesso livello, e il Fisher FC, che abbiamo già visto, ne è in parte una testimonianza. Riteniamo comunque che sia un modello, in certi casi, applicabile, se non una situazione con cui prima o poi quasi tutti i club dovranno fare i conti, perchè in fondo lo stesso Fisher FC (ci sono altri esempi), sebbene più in piccolo, grazie ai suoi tifosi è tornato e rimane in vita.

Contatti
Sito Ufficiale: http://www.fc-utd.co.uk
Twitter: @FCUnitedMcr

Trofei

  • Northern Premier League Division One North Play-off winners: 2007–08
  • Northern Premier League President’s Cup: 2007–08
  • North West Counties League Division One: 2006–07
  • North West Counties League Challenge Cup: 2006–07
  • North West Counties League Division Two: 2005–06
  • Supporters Direct Cup: 2006
  • Jimmy Davis Memorial Cup: 2007

Viaggio nella Manchester del calcio: parte prima, Manchester City

Manchester_City.svgManchester City Football Club
Anno di fondazione: 1880
Nickname: the Citizens
Stadio: City of Manchester Stadium, Manchester M11
Capacità: 48.000

Oh, il Manchester City. Nelle declinazioni prevalenti in Italia, il “ManchesterCitydiMancinieBalotelli” (che fa da contraltare al “Manchester” e basta – ovvero lo United – come ripete sempre l’amico Roberto Gotta) o il “ManchesterCitydegliSceicchi”. Già, gli sceicchi, il cui denaro ha riempito le casse del club e inondato il mercato calcistico mondiale: il Manchester City attuale è frettolosamente bollato come una creazione dei petroldollari. Indubbiamente c’è del vero in tutto ciò, perchè gli Aguero, i Tevez, e compagnia senza soldi non sarebbero mai venuti a sostenere la causa Citizens. Ma il Manchester City va anche capito, compreso e studiato oltre l’attuale situazione di benessere economico; e va capito partendo da una data a parer nostro, il 30 Maggio 1999. Il City era sprofondato in League One, che allora era Second Division, ma la sostanza è quella: terza serie. Si giocava a Wembley, lo stadio che l’aveva visto protagonista di passati trionfi, la finale dei playoff promozione contro il Gillingham, che è sì l’unica squadra professionistica del Kent ma non esattamente il Barcelona, e nemmeno l’Atletico Madrid se per quello. Il Gillingham segna all’81’ e all’86’, e sembra finita. Kevin Horlock (altro che Yaya Tourè..) riapre partita e speranze al minuto ottantanove. Poi…poi, all’ultimo istante, il tiro preciso tra primo palo e traversa di Paul Dickov, che manda la partita ai supplementari e poi ai rigori, con il Man City che ne uscì trionfatore.

800px-Mcfc_stad_panoQuest’introduzione diversa dal solito, un po’ romantica e nostalgica serve a introdurre meglio la squadra staccandola dallo stereotipo attuale. Poi, sia chiaro, il Manchester City è squadra di tradizione e trofei, anche prima di Mansour, non una banda di sconosciuti catapultata all’improvviso sulla scena del calcio inglese; ma quel momento, peraltro accaduto pochi giorni dopo il trionfo leggendario dello United sul Bayern in Champions (‘sto vizio dei goal allo scadere…), è la base da cui partire. Il Manchester City nasce, con il nome di St Mark’s, nel 1880, quando l’omonima chiesa di West Gorton (sud-est di Manchester) decise che il calcio avrebbe potuto essere un’efficace strumento per la lotta contro alcolismo e violenza, due piaghe che affliggevano l’est di Manchester in particolare a causa dell’alto tasso di disoccupazione. Scopi umanitari in sostanza, secondo i due sostenitori dell’idea, William Beastow e Thomas Goodbehere, custodi della chiesa, e Anna Connell, che dell’idea fu la promotrice . Maglia nera e pantaloncini bianchi, il team sembrava essere molto “umanitario” anche in campo, nei confronti degli avversari soprattutto tanto che in quella stagione inaugurale il neonato club vinse una sola partita. Nel 1884 il St Marks si unì al Gorton Athletic, un’unione che durò pochi mesi prima che i due club si riseparassero, cambiando però entrambi nome: il St Mark’s divenne Gorton AFC, mentre l’Athletic divenne West Gorton Athletic.

St Mark’s

Nel 1887 il Gorton AFC fece il grande passo: il passaggio al  pofessionismo, che sottintende come facilmente intuibile il progressivo abbandono degli originari scopi e dell’originario spirito religioso. Si trasferì nel nuovo impianto di Hyde Road e cambiò nome in Ardwick AFC, praticamente sostituendo il nome di Gorton con quello del nuovo quartiere, situato sempre nella zona east della città. Proprio in prossimità di Hyde Road era situata una miniera, che nel 1889 fu teatro di un’esplosione che causò la morte di 23 minatori: Ardwick e Newton Heath (futuro Manchester United) giocarono per beneficienza una partita amichevole, in uno dei primi derby di Manchester. La sfida si ripropose, due anni dopo, nella finale della Manchester Cup: la vittoria dell’Ardwick fu alla base dell’accettazione del club in Football Alliance e, l’anno seguente quando la lega venne inglobata in Football League, della partecipazione alla Second Division, di cui divenne membro fondatore. Durante la stagione 1893/94 problemi finanziari portarono alla completa riorganizzazione del club che, anche nel tentativo di attrarre a se un maggior numero di spettatori, cambiò in tutto questo il proprio nome in Manchester City Football Club. Tra le prime mosse, l’acquisto di Billy Meredith, the Welsh Wizard, una delle prime stelle del calcio e, durante la settimana…minatore! (solo nel 1896 il City lo convinse che forse era meglio dedicarsi solamente al football).

Billy Meredith

L’arrivo di Meredith coincise con l’inizio della crescita del City, sia a livello di prestazioni, che culminarono con la promozione del 1899 in First Division, sia a livello di pubblico, con attendances che toccavano regolarmente le 20.000 unità. Il successo del club contribuì in qualche modo anche a rivitalizzare l’area est della città, realizzando in parte l’obbiettivo primario dei fondatori del St Mark’s; 20.000/30.000 persone arrivavano al Sabato ad Hyde Road a colorare e ravvivare il grigio e decadente distretto industriale. Come detto, nel 1899 venne centrata la promozione; e cinque anni più tardi, nel 1904, il Manchester City divenne il primo team della città a vincere un major trophy, la FA Cup, sconfiggendo per 1-0 (goal di Meredith) al Crystal Palace il Bolton Wanderers. Nella stessa stagione, il secondo posto in campionato portò il club a un passo dal double: il City avrebbe dovuto vincere l’ultima partita della stagione, al Villa Park, e invece ne uscì sconfitto, regalando di fatto il titolo al Newcastle United. Ma alla delusione si aggiunse lo sgomento, quando il capitano del Villa, Alec Leake, accusò dopo la partita Meredith di avergli promesso denaro in cambio del lasciapassare per la vittoria. Meredith venne ritenuto colpevole dalla FA (squalificato per un anno), e poichè il Manchester City si rifiutò di sostenerlo, il gallese accusò il club di pagamenti illeciti (nel 1901 la FA aveva stabilito un tetto di 4 sterline a settimana di stipendio): la FA a quel punto investigò anche sul City, anch’esso giudicato colpevole di aver violato la regolare sugli stipendi. Il manager Tom Maley venne sospeso a vita, il club multato di 250 sterline, diciassette giocatori ritenuti colpevoli il che portò il City a vedersi costretto a metterli, sostanzialmente, all’asta. Ne approfittò il Manchester United: il manager Mangnall acquistò così Meredith, Burgess, Turnbull e Bannister e, nel 1907/08, vincerà con loro in campo il titolo. Beffa delle beffe…

Fino alla scoppio della prima Guerra Mondiale, e in verità anche in seguito, il Manchester City vivacchiò in First, fatta eccezione per una stagione trascorsa in Second (1909/10) da cui tuttavia ottenne subito la promozione vincendo il campionato. Oscillava tra il terzo e il diciannovesimo posto (che causò appunto la retrocessione), senza particolari acuti nemmeno in coppa, fino al secondo posto della stagione 1920/21 che segnò il punto più alto del decennio 1910/11-1920/21. Va menzionata, però, almeno la coppia goal del tempo, formata da Tommy Bracewell e Horace Barnes, 242 goals segnati con la maglia azzurra del City (su cui torneremo come sempre alla fine del post). Il 1920 è un anno importante anche per un altro motivo: un incendio scoppiato ad Hyde Road e che distrusse la Main Stand portò infatti il club a considerare una nuova casa, casa che venne trovata nel Moss Side, zona sud della città. In realtà venne considerata sia la possibilità di dividere Old Trafford con i cugini dello United, sia di rimanere nell’east Manchester, a Belle Vue, ma in entrambi i casi problemi contrattuali (affitto nel primo caso, durata del contratto nel secondo) fecero optare il club per la costruzione del proprio stadio. La decisione di lasciare la casa naturale, l’est cittadino, portò il dirigente John Ayrton ad abbandonare il City e fondare il Manchester Central FC, club dalla breve vita che, nell’idea di Ayrton, avrebbe dovuto attrarre a se i tifosi dell’Eastlands che avevano “perso” il Man City. Il Central, che giocava proprio a Belle Vue, tentò anche l’accesso alla Football League, ma l’ostilità di City e United costrinse il club, dopo solo quattro stagione, alla scomparsa. Rimane tuttavia un interessante esperimento legato al rapporto club-comunità.

Maine Road

Il nuovo impianto nel Moss Side, che a questo punto tutti avranno capito essere Maine Road, venne inaugurato nel 1923. Nel 1926 il City raggiunse una nuova finale di FA Cup, sempre contro il Bolton Wanderers che, in questo caso, si impose sugli sky blues; delusione per la sconfitta che si fece più acuta con la retrocessione in seconda serie all’ultima giornata. In Second Division i Citizens rimasero due stagione, la prima conclusasi con la beffa subita dal Portsmouth (promosso per una miglior differenza reti nonostante una vittoria per 8-0 del City all’ultima giornata), la seconda con il trionfo e il primo posto finale. Si apriva un decennio di successi per il club, anche se, nel secondo di essi (il campionato 1936/37) alcuni protagonisti erano nel frattempo cambiati; comunque, tanto per ricordarne qualcuno: Matt Busby, sì, Sir Matt Busby, che giocò per City e Liverpool e allenò lo United, i casi del destino; Frank Swift, considerato uno dei grandi portieri inglesi e deceduto nel disastro di Monaco, nelle vesti di giornalista per il News of the World;  Sam Cowan, il capitano, che dalle mani del Re ricevette l’FA Cup 1934 (2-1 al Portsmouth) e che al Re disse, a proposito di Fred Tilson, altro protagonista di quegli anni e autore dei due goal della finale “This is Tilson, your Majesty. He’s playing today with two broken legs“, sottolineando così l’inclinazione all’infortunio del nostro. Dunque, il titolo 1936/37, l’FA Cup 1934, una finale l’anno precedente persa per 0-3 contro l’Everton. E poi…

E poi, nel 1937/38, da campione in carica, il Manchester City retrocesse (nonostante il miglior attacco del campionato, altra prova a sostegno della tesi che si vince con la difesa), la prima e finora unica squadra a completare questa dolce-amara doppietta. Lo scoppio della guerra sginificava che, alla ripresa delle competizioni, il City sarebbe dovuto ripartire dal secondo livello. La pratica fu sbrigata nella stagione 1946/47, la prima post-guerra, con la promozione raggiunta sotto la guida di Cowan, l’ex capitano divenuto manager (già da capitano, nell’epoca in cui i manager erano più amministrativi che tecnici, aveva dimostrato grandi doti di motivazione e di tattica). A questo punto apriamo una parentesi storico-calcistica-politica: Bert Trautmann (QUI un bel pezzo in italiano). Nel 1949 il City mise sotto contratto il portiere tedesco, fatto di per se non eccezionale, ma che lo era quattro anni dopo la guerra contro la Germania, anche per il fatto che Trautmann la Gran Bretagna l’aveva visitata da…prigioniero, avendo egli aderito al nazismo. Senza problemi, Trautmann ammise sia la giovanile simpatia per le (terribili) idee nazionalsocialiste, sia l’esperienza formativa di prigioniero in UK, che gli consentì di rovesciare i pregiudizi e le idee della propaganda tedesca su britannici ed ebrei. Nonostante questo, la firma di Trautmann suscitò proteste e dimostrazioni (e non di poco conto, visto che al grido “Off the Germans!” si unirono in 20/40 mila). Poi, come sempre, le prestazioni sul campo – eccezionali – del tedesco fecero dimenticare tutto, e ad oggi Trautmann (OBE, onoreficenza consessagli nel 2004) è ricordato come uno dei grandi portieri del suo tempo (calciatore dell’anno nel 1956, tra le altre cose) piuttosto che come un ex nazista pentito.

Trautmann

Oltre che Trautmann, dall’Europa continentale il City importò anche il “Revie plan”, sistema di gioco mutuato da quello degli ungheresi vincitori per 6-3 a Wembley e che prende il nome da Don Revie, la chiave di quel sistema. Manager Les McDowell. I frutti? Due finali di FA Cup, nel 1955 contro il Newcastle (sconfitta) e nel 1956 contro il Birmingham City, vittoria per 3-1. In campionato invece i risultati non furono ecclatanti (nel 1960/61 tra le altre fece la sua prima breve parentesi nel club Denis Law), anzi terribilmente decrescenti fino alla nuova retrocessione datata 1963, che aprì un periodo di tre stagioni in seconda divisione ma che fu il preludio al periodo di maggiori successi per la squadra, che iniziò con la nomina a manager di Joe Mercer, a cui fece seguito quella di Malcom Allison come suo assistente. Mercer ottenne subito la promozione, ma non solo: acquistò due giocatori su tutti, Mike Summerbee dallo Swindon Town e Colin Bell dal Bury (due passi da Manchester), a cui in seguito si aggiunse Francis Lee e che formeranno il cuore della squadra, oltre a diventare autentiche leggende dalle parti di Maine Road. Stando allo stesso Summerbee, andrebbe aggiunto anche Neil Young, come leggo su un programma del City che ho sottomano: “everybody refers to those days at the ‘Bell, Lee and Summerbee era, but it really should be the ‘Lee, Bell, Young and Summerbee’ era. He was like a ballet dancer, he was so graceful on a football pitch“.

Dopo la promozione, arrivò il titolo nel 1967/68: fu all’inizio – tribolato – di questa stagione che venne firmato Francis Lee. Il City mise del tempo per ingranare, e nonostante tutto arrivò all’ultima partita della stagione a pari merito con i cugini, e campioni in carica, dello United: il City giocava a Newcastle, e necessitava di una vittoria, i Red Devils in casa contro il Sunderland. La storia che si ripete, se pensiamo allo scorso Maggio (stessa situazione, stesso avversario per il Man Utd), e se pensiamo che il City vinse 4-3, di un soffio insomma. Il titolo fu seguito da una deludente campagna europea, ma tra i confini d’Albione dalla vittoria in FA Cup, in finale contro il Leicester City (1-0, Young), che quindi apriva nuovamente le porte dell’Europa nonostante il tredicesimo posto finale in campionato. E questa volta l’avventura europea fu un trionfo, visto che nella finale del Prater di Vienna di Coppa delle Coppe il City sconfisse 2-1 (Young, Lee) i polacchi del Gornik, mettendo in bacheca l’alloro europeo mancante. Mancava anche la League Cup, che nella stessa stagione venne vinta contro il West Bromwich Albion. Una semifinale di Coppa delle Coppe l’anno successivo e il quarto posto del 1971/72 calarono il sipario sull’era Mercer/Allison. Soprattutto il quarto posto del ’72 fu controverso: le operazioni, condotte fin lì perfettamente anche da Allison (Mercer era divenuto General Manager, nonostante mantenesse lui il controllo della squadra il suo vice guadagnò spazio e visibilità), portarono il City ad accumulare quattro punti di vantaggio a Marzo, che nell’era dei due punti era un discreto tesoretto. Cosa successe? A detta di tutti, l’acquisto di Marsh, sì Rodney Marsh, fu la causa della disfatta; pur talentuosissimo, la presenza di Marsh, tatticamente indisciplinabile, ruppe la perfezione degli schemi di Allison. Lo stesso Marsh è tuttoggi rammaricato: “I have to hold my hands up – I cost Manchester City the 1972 league championship”.

Il City 1970, Coppa delle Coppe e Coppa di Lega

A questo punto, la dirigenza ritenne che si dovesse scegliere tra Mercer e Allison, e scelse il secondo, come affermerà il presidente di allora, Peter Swales. A Mercer, in modo quantomeno discutibile, venne rimosso il nome dalla porta dell’ufficio nonchè il posto auto, modo subdolo per invitarlo a lasciare il club, cosa che Mercer fece direzione Coventry City. Allison durò poco però sulla panchina del City, dimettendosi a metà della stagione 1972/73, sostituito dal capitano Johnny Hart, che riuscì a salvare la squadra. La stagione successiva vide Tony Book, anch’egli ex capitano del club, prendere in mano le redini; durante il suo regno il City, oltre al famoso “Denis Law game” di cui abbiamo parlato nella presentazione del viaggio e che costò allo United la retrocessione, conseguì un secondo posto (un solo punto dietro al Liverpool, 1976/77) e una Coppa di Lega, nel 1976 contro il Newcastle United. Lasciarono il club Summerbee e Lee, mentre Denis Law, tornato nel 1973, si ritirò dopo appena una stagione e quella famosa partita. A Book seguì il ritorno di Allison, che coincise con l’inizio del declino; dopo una stagione venne licenziato.

John Bond fu il sostituto designato di Allison, e riuscì quasi nell’impresa di regalare al club un successo in FA Cup, se non fosse stato per il Tottenham e Ricky Villa, che nel replay della finale si inventò una doppietta risolutiva (1981). Al termine della stagione 1982/83 il City tornò a conoscere il sapore della Second Division, dove rimase due anni, ma in cui tornò nuovamente al termine della stagione 1986/87. Fu Mel Machin a condurre nuovamente i Citizens in First Division, anche se durante la prima stagione in massima serie venne licenziato, con la squadra in piena lotta per salvarsi, e sostituito da Howard Kendall, il direttore dell’orchestra Everton che tanto successo riscosse negli anni ’80. Kendall archiviò la salvezza, ma ripartì presto in direzione Merseyside, lasciando vacante la panchina del Maine Road su cui si sedette il giovane Peter Reid. Reid, centrocampista di 34 anni e futuro manager di lungo corso del Sunderland, portò il City a due rispettabilissimi e sorprendenti quinti posti finali, nonchè a un nono posto nella prima stagione di Premier League. Tuttavia, all’inizio della stagione 1993/94 perse il posto in favore di Brian Horton, con la squadra però che scivolava pericolosamente verso le parti basse della classifica. Un sedicesimo e un diciassettesimo posto costarono il lavoro a Horton, ma il sostituto, Alan Ball, fece peggio e, al termine della stagione 1995/96 il City retrocesse.

Paul Dickov segna contro il Gillingham (1999)

La seconda metà degli anni ’90 rappresenta il punto più basso nella storia della parte blu di Manchester, che nel 1998/99 conobbe per la prima volta (e ultima) il baratro della terza serie del calcio inglese. La memorabile finale dei playoff con cui abbiamo aperto il post è il coronamento di una stagione più difficile di quanto ci si aspettasse (il City era largamente favorito per la promozione diretta); i nuovi eroi non si chiamavano più Lee, Bell o Summerbee, ma Goater, Dickov, Horlock, Weaver. In panchina Joe Royle, che condusse la squadra alla promozione in back-to-back: dopo quella in Division One, quella in Premier League, in cui tuttavia i Citizens rimasero una sola stagione e Royle fu così licenziato e sostituito da Kevin Keegan. The King stravinse il campionato di seconda serie, l’ultimo ad oggi del Manchester City che da allora rimane stabilmente in Premier. Nel frattempo, la costruzione del City of Manchester Stadium per i giochi del Commonwealth del 2002 significò l’abbandono di Maine Road, che chiuse i battenti nel 2003; il nuovo stadio vedeva così il ritorno del City nell’est cittadino dopo 80 anni nel Moss Side.

Gli anni di Keegan, a cui fecero seguito quelli di Pearce, videro il Manchester City stabilizzarsi in Premier, senza grandi acuti ma senza nemmeno i clamorosi tonfi a cui aveva abituato i propri tifosi. Qualche sussulto si ebbe nel 2007/08, quando l’ex primo ministro della Thailandia Thaksin Shinawatra divenne proprietario del club (in panchina Sven-Goran Eriksson), un’esperienza conclusa sull’orlo del fallimento personale, che lo portò a cedere in fretta e furia il club al gruppo di Abu Dhabi Abu Dhabi United Group, presieduto dallo sceicco Mansour, nome ormai noto tra gli appassionati di calcio, che mise alla guida del club Khadoon Al-Mubarak, il distinto signore che, occhiali sul naso, vedete spesso alle partite del City. Storia recente, con Mark Hughes, gli investimenti dapprima infruttuosi, l’arrivo di Roberto Mancini e la vittoria in FA Cup e Premier League, e su cui non ci soffermeremo, se non per ri-sottolineare come dopo questa operazione il City sia divenuto l’emblema del “calcio degli sceicchi”, precursore di una serie di altri club europei (Malaga, Paris St Germain su tutti) che hanno invaso di petroldollari il mercato europeo. Ma come detto, questa storia serve anche a scindere quest’immagine più o meno stereotipata del City e ricollegarla con l’essenza stessa dell’essere Citizens, di Bell Lee e Summerbee, delle maglie azzurre, del goal di Dickov nel 1999.

Il logo utilizzato dagli anni ’70 al 1997

Le maglie, appunto. La prima, usata dal St Mark’s/Gorton, era completamente nera, con la croce di malta bianca sul petto. Con la nascita dell’Ardwick i colori divennero bianco-blu, un blu acceso, che a righe verticali fecero la loro comparsa nel 1887, sostituiti poi da una maglia metà bianca/metà azzurra e da una bianca con pantaloncini blu scuro. Con il cambio di nome in Manchester City (1894), i colori divennero l’azzurro per la maglia e il bianco per i pantaloncini, colori che accompagneranno sempre il club da quel momento in poi. Calzettoni blu, ma che nel tempo videro anche la comparsa di risvolti marrone/amaranto, colore che in questa stagione compare sulla maglia da trasferta. Maglia da trasferta i cui colori classici, il rosso/nero a righe, furono ispirati a Malcolm Allison dal Milan, il Milan del paron Rocco e di Gianni Rivera. Una curosità che ci sembrava giusto sottolineare. Per quanto riguarda lo stemma invece, il primo di cui abbiamo notizie è quello dell’Ardwick, che dal 1887 al 1894 mise in mostra uno scudo con le iniziali AAFC (Ardwick Association Football Club). Dal 1894 al 1964 lo stemma cittadino, con la nave dello Ship Canal e le strisce diagonali rosso/oro simbolo della famiglia Grelley; questi due emblemi vennero mantenuti nel successivo stemma, circondati però dalla scritta “Manchester City Football Club”. Dagli anni ’70 il logo venne modificato sostituendo le strisce dei Grelley con la rosa rossa del Lancashire, contea d’appartenenza di Manchester prima della creazione della “Greater Manchester”, e rimase tale fino al 1997 quando venne introdotto quello attuale. Un’aquila, tra i simboli di Manchester, ha al suo centro lo scudo rappresentante la solita nave e le righe, questa volta simbolo dei tre fiumi cittadini (Irwell, Irk, Medlock), il tutto corredato dal motto “superbia in proelio” (orgoglio in battaglia) e da tre stelle che non significano nulla, ma che secondo gli ideatori del logo gli avrebbero dato un profumo più europeo. Sarà…se non altro dal maggio scorso le tre stelle possono essere lette come i tre titoli vinti dal City (le stelle in Inghilterra vengono usate senza una regola precisa, c’è chi le ha per la Coppa dei Campioni – Aston Villa, Nottingham Forest – chi per la FA Cup – Bradford City, chi per altri trofei).

Come detto nella presentazione del viaggio a Manchester, lo stereotipo del tifoso City e il vero Mancunian, e i fatti in parte danno ragione a questo ideale diffuso. Con la crescita recente del club è però legittimo (purtroppo, ma questa è opinione soggettiva di chi non tollera i “glory hunters”) aspettarsi una rapida ascesa del numero dei tifosi, sia nel Regno Unito sia soprattutto all’estero (e qui è già più comprensibile, visto che per noi che viviamo lontano dall’UK non esiste un “local team”). Tifosi famosi per “Blue Moon”, canzone di Richard Rodgers e Lorenzo Hart del 1934 che è diventata l’inno del club e che viene cantata prima di ogni partita, e da due anni per il “Poznan”, un’esultanza con la schiena rivolta al terreno di gioco che i supporters del City hanno copiato da quelli del Lech Poznan, incontrati in nell’edizione di Europa League di quella stagione. Arrivare al City of Manchester (che ora per ragioni di sponsor si chiama Etihad Stadium), con la metropolitana leggera in fase di costruzione, è consigliato farlo in taxi, ma il tragitto a piedi dal centro di Manchester è raccomandato, avrete una maggiore percezione della realtà urbanistica cittadina oltre che l’esperienza di camminare con i tifosi Citizens.

Aguero regala il titolo 2012 al City

Trofei

  • First Division/Premier League: 1936/37, 1967/68, 2011/12
  • F.A. Cup: 1904, 1934, 1956, 1969, 2011
  • League Cup: 1970, 1976
  • F.A. Charity/Community Shield: 1937, 1968, 1972, 2012
  • Coppa delle Coppe: 1970

Records

  • Maggior numero di spettatori: 84.569 v Stoke City (3 Marzo 1934, l’affluenza più alta nella storia per un club inglese)
  • Maggior numero di presenze in campionato: 564, Alan Oakes
  • Maggior numero di reti in campionato: 158, Eric Brook e Tommy Johnson

 

Viaggio nella Manchester del calcio: introduzione

Coat_of_arms_of_ManchesterUltima tappa del nostro viaggio a spasso per le città inglesi che ospitano due squadre professionistiche, che concludiamo nella città sede della squadra campione in carica e della seconda più vincente di sempre, ma in quanto a titoli inglesi la più vincente. Quella Manchester che, nella nostra visita di Febbraio, ci ha accolto con la neve, la nebbia e un freddo che difficilmente scorderemo. Ora, quando si pensa a Manchester si pensa irrimediabilmente alla rivoluzione industriale, visto che la città fu una delle, se non La capitale di quel processo che trasformò radicalmente l’Europa e il Mondo; e in effetti i segni della rivoluzione industriale si vedono ovunque, visto che l’archeologia industriale è intervenuta incisivamente nelle decisioni e molti nuovi edifici sono stati ricavati da vecchie fabbriche o capannoni che sono stati così mantenuti in vita. Il cuore pulsante della città, che abbiamo capito ruotare, specie in inverno, attorno al centro commerciale di Arndale e a una vicina galleria, conserva questi elementi industrialeggianti, sette-ottocenteschi, accanto a strutture decisamente più moderne. Nel complesso, la città non sembra essere malvagia, non almeno come ce l’aspettavamo essere.

Residui di industrializzazione

Residui di industrializzazione

Manchester è una city e un metropolitan borough facente parte della contea della Greater Manchester, un’area ad altissima densità di popolazione. Conta intorno ai 500.000 mila abitanti, che raggiungono però i 2 milioni e 200 mila se si tiene conto di tutta l’area urbana, un’area che conobbe il suo sviluppo grazie all’industria, come detto, mentre prima altro non era che un insieme di piccoli borghi rurali. I canali che attraversano in vari punti la città non ne fanno propriamente una Venezia del nord, visto che si percepisce immediatamente con che scopo vennero creati. La città, che nel 1996 ha conosciuto un momento di quasi-tragedia con l’attentato rivendicato dall’IRA (non ci furono vittime, ma ingentissimi danni economici), è ora la classica città post-industriale come detto, che mantiene lineamenti antichi sposandoli con elementi di modernità assoluta; è ottimamente servita dai mezzi pubblici, specialmente dal Metrolink, un servizio di metropolitana leggera in continua espansione (è prossima l’apertura di un tratto che toccherà, tra le altre mete, l’Etihad Stadium) molto comodo. Elegge cinque MPs (parlamentari), con una netta prevalenza laburista come ovvio viste le radici operaie degli abitanti.

L'altro Old Trafford

L’altro Old Trafford

Per il resto, la città offre poche attrazioni, i musei principali, sebbene vi sia una Art Gallery (nonchè una biblioteca davvero grande), sono dedicati all’industria o ai suoi derivati (museo della scienza e della tecnica, museo dei trasporti etc.). Dal punto di vista letterario offre poco, anche se il soggiorno di Engels a Manchester fu decisivo in tutta l’opera del teorico tedesco; un po’ meglio va con la musica, visto che la città è rappresentata dai famosissimi Oasis, oltre che da altri gruppi tra cui i Buzzcocks che i più attenti si ricorderanno essere citati in Febbre a 90′ (con i leggendari topi di zucchero) o gli Smiths. Nella vicina Salford viene inoltre trasmesso, dagli studi locali della BBC, Match of the Day, il Programma calcistico con la P maiuscola, con Gary Lineker, Alan Shearer, Alan Hansen in studio, mentre in altre nazioni le trasmissioni sportive sono in mano a personaggi di discutibile competenza (ogni riferimento all’Italia NON è casuale). Anche il Guardian, famoso giornale nazionale, venne fondato a Manchester, anche se dal 1964 la sede principale è a Londra.

I fratelli Gallagher con la maglia del loro amato Man City

Oltre ad essere sede del Lancashire Cricket Club (il Lancashire è contea prossima alla città), che curiosamente gioca ad Old Trafford (un miglio circa di distanza dallo stadio del calcio), la città ospita quelle che sono attualmente le due squadre inglesi più forti, il Manchester City e il Manchester United. Il derby tra le due squadre è stato giocato, ad oggi, 164 volte: 68 vittorie dello United, 50 pareggi e 46 vittorie del City. Tra le tantissime partite disputate, menzioniamo il “Denis Law game”: Law, leggenda dei Red Devils ma che ha indossato anche la maglia azzurra dell’altra parte della città, proprio giocando per il City segnò un goal all’Old Trafford che diede ai Citiziens la vittoria per 1-0 nell’ultima partita stagionale; poichè pensava che il suo goal avesse condannato la sua ex squadra alla retrocessione, uscì immediatamente dal campo a testa bassa, sostituito dal manager, mentre in realtà anche una vittoria dello United avrebbe significato comunque la retrocessione dei Red Devils. Era il 1974, e Law non giocò più una partita di campionato. Il Manchester United ritornò invece in First immediatamente e si preparerà a scrivere, un decennio dopo, nuove pagine di leggenda.

Manchester-Derby1Le due squadre hanno un largo seguito, oltre che una fiera rivalità, anche se, fino agli anni ’60, era usanza per i tifosi di Manchester seguire entrambe le squadre quando queste giocavano in casa, anche se se ne tifava una sola: non era raro pertanto trovare tifosi dello United a Maine Road o del City a Old Trafford. Ora, è opinione comune e diffusa che il cittadino di Manchester città tifi per il City, mentre quello delle aree circostanti o fuori contea sia più incline a tifare Red Devils. E questo è confermato dai fatti: secondo uno studio della Manchester Metropolitan University condotto sugli abbonati di entrambe le squadre, i season-ticket holders (come è ovvio), il 40% degli abbonati del Manchester City proviene dall’area dal post-code mancuniano, mentre per quanto riguarda i Red Devils il 29% degli abbonati proviene dalla stessa zona. Questa sociologia spicciola del tifo mancuniano è comunque interessante a capire la localizzazione dei tifosi delle due squadre, squadre che andiamo a conoscere partendo dalla Manchester azzurra: andiamo a conoscere il Manchester City Football Club.

Viaggio nella Birmingham del calcio: parte terza, West Bromwich Albion

West Bromwich Albion Football Club
Anno di fondazione: 1878
Nickname: the Baggies
Stadio: the Hawthorns
Capacità: 26.500

Abbiamo spiegato perchè trattatiamo anche il West Bromwich Albion nel nostro viaggio a Birmingham: vicinanza geografica soprattutto, e West Bromwich (metropolitan borough di Sandwell) è ormai un tutt’uno con Birmingham. Ribadito ciò, conosciamo più da vicino il W.B.A.. Le origini del WBA sono da ricercare nella fabbrica della George Salter Spring Works: furono proprio gli operai della fabbrica, con sede a West Bromwich, a fondare la squadra di calcio, e nemmeno a dirlo molti di loro erano cricketers annoiati durante l’inverno. Fondarono così il West Bromwich…Strollers; il nickname scelto, Strollers appunto (girovaghi, vagabondi) è legato a una curiosità, ovvero che i giocatori della squadra dovettero recarsi nella vicina Wednesbury per comprare…il pallone! perchè in quel di West Bromwich non se ne trovavano. Il suffisso Albion venne aggiunto nel 1879 o nel 1880, dal nome del distretto cittadino in cui alcuni dei giocatori vivevano o lavoravano. Come tutte le squadre dell’epoca, i primi match furono semplici amichevoli, e fu solo nel 1881/82 che il team si affiliò alla Birmingham & District Football Association, partecipando alla Senior Cup da essa organizzata e giungendo fino ai quarti di finale. Fu la prima occasione in cui il WBA si fece conoscere ad una platea più ampia.

hawthornsSui colori sociali e relative maglie torneremo alla fine, perchè la storia da questo punto di vista è piuttosto complicata. Invece per quanto riguarda gli stadi, o meglio i campi da gioco è presto detto, per quanto Cristian approfondirà come di consueto la vicenda: il primo fu Coopers Hill (1878/79), poi Dartmouth Park (1879/80) e Bunns Field (1880/81) fino al trasferimento nel 1882 a Four Acres (in cui rimasero per tre anni) lo stesso anno nel quale il club si iscrisse anche alla Staffordshire FA (a quel tempo, West Bromwich era nella contea dello Staffordshire) vincendo la coppa al primo tentativo in finale contro lo Stoke. A Four Acres, secondo il contratto d’affitto, il club poteva giocare solo di Sabato e di Lunedì, estate esclusa perchè in quella stagione ad occuparlo ci avrebbe pensato il Dartmouth Cricket Club. Giocavano invece a calcio – e bene – quelli del West Bromwich Albion, tanto che, dopo il passaggio al professionismo nel 1885 e l’esordio in FA Cup nella stagione precedente, il club inanellò tre-finali-tre di seguito: 1886 vs Blackburn Rovers (0-2 al replay), 1887 vs Aston Villa (0-2) e 1888 vs Preston North End, con finalmente la vittoria per 2-1 e il trofeo posto con orgoglio in bacheca. Nello stesso anno, come abbiamo visto, William McGregor scrisse a quelli che considerava i team principali, e tra essi l’Albion, per creare un campionato che rendesse competitivi gli altrimenti noiosi match extra-coppe: nasceva in quel modo la Football League e il WBA era tra i dodici membri fondatori. Intanto il club aveva abbandonato Four Acres per stabilirsi a Stoney Lane.

Ma il trofeo con cui il West Brom continuava ad avere più confidenza era l’FA Cup, che rivinse nel 1892 in finale contro l’Aston Villa (un secco 3-0) e che perse, sempre contro il Villa, nel 1895. Stoney Lane nel frattempo cominciava a diventare stretto al club, sia per l’affitto sia per le possibilità di sviluppo: discussioni interne al club tra favorevoli a rimanere a Stoney Lane e contrari videro prevalere questi ultimi, e venne così preso in affitto parte del terreno appartenente al Sandwell Park, periferia sud della città, che diventerà The Hawthorns. Il nome deriva dal semplice fatto che quell’area era ricoperta da biancospini (hawthorn, che compare ancora oggi nel simbolo del club), mentre le modalità di acquisto erano le solite incontrate anche per altri stadi: affitto con opzione d’acquisto a favore del club nell’arco di quattordici anni dal momento della firma. Il West Bromwich Albion ebbe la non entusiasmante idea di inaugurare la sua storia al the Hawthorns retrocedendo in Second Division, da cui tuttavia uscì subito, vincendola.

La squadra del 1888

La squadra del 1888

A questo punto entra sulla scena un diciannovenne nativo di West Bromwich, che giovanissimo era entrato nello staff del club e che nel 1902 entrò in carica come segretario-manager (la posizione già vista per quanto riguarda l’Aston Villa): il suo nome è Fred Everiss, occuperà quella posizione fino al 1948 ed è il manager nella storia del calcio inglese ad essere rimasto in carica più a lungo. In realtà i quarantasei (!) anni alla guida del WBA suscitano qualche discussione nel merito, perchè il suo ruolo era più amministrativo che tecnico visto che la squadra veniva scelta insieme ad altri dirigenti (ed è comunque interessante notare che questa ambivalenza del ruolo del manager rimane tuttora nel calcio inglese, l’ormai mitologica figura del “manager all’inglese” stando alle banalotte TV italiane) e per alcuni è dunque esagerato parlare di manager come lo concepiamo al giorno d’oggi. Fattostà che Everiss è una delle figure chiave nella storia del club, anche se all’inizio una nuova retrocessione e alcune stagioni in Second non sembravano promettere troppo bene. Il ritorno nella massima serie (1911/12) coincise con un’altra finale di FA Cup, persa sorprendentemente al replay contro il Barnsley che all’epoca (e a dir la verità, anche mentre scriviamo) giocava in seconda serie. Un nucleo giovane aveva quella squadra, che nonostante la guerra riuscì a mantenersì in forma, diciamo così, disputando tornei amatoriali e di beneficienza e che venne ripagato, nel 1919/20 (prima stagione post-guerra) con il titolo di campioni di First Division, l’unico titolo nella storia del WBA. In quella stagione Fred Morris vinse la classifica cannonieri con 37 reti, e la squadra ne segnò complessivamente 104. Un secondo posto nel 1924/25 dietro all’Huddersfield di Chapman fu il preludio però alla retrocessione del 1927.

Fino al 1930/31 l’Albion rimase impaludato nella seconda serie, nonostante valanghe di goal (Jimmy Cookson ne segnò 38 in una stagione): in quella campagna dall’esito positivo arrivò tuttavia secondo, alle spalle dell’Everton, ma ottenendo così la sospirata promozione; promozione che fu accompagnata dalla vittoria in FA Cup contro il Birmingham, che fece e fa del WBA l’unica squadra ad aver centrato il “double” promozione-coppa. Quella finale venne decisa (2-1) dalla doppietta di William “Ginger” Richardson (W.G. Richardson, da non confondersi con il compagno di squadra Bill Richardson), il terzo grande bomber di questi anni del WBA, che nel 1935/36 metterà a segno 39 goals, record ogni epoca per il club in quanto a goal segnati in una stagione. Una finale persa di coppa contro lo Sheffield Wednesday (1935) e fu di nuovo retrocessione in Second, divisione nella quale l’Albion si trovava quando scoppiò nuovamente la guerra. Everiss rimase in carica fino al 1948, quando il club optò, in ritardo rispetto alle altre squadre inglesi, di nominare un manager “vero” se così possiamo dire, che si occupasse di tutti gli aspetti tecnici, degli allenamenti (fino a quella data il WBA si allenava solo dal punto di vista fisico, senza usare il pallone) e del mercato: tale manager fu Jack Smith, ed Everiss assunse un ruolo prettamente dirigenziale. Smith conquistò immediatamente la promozione: cominciava in quel momento un periodo lungo 24 anni di permanenza in First Division. E comincavano gli anni ’50, che saranno ricordati a lungo dalle parti del The Hawthorns. Smith venne licenziato nel 1952, sostituito dall’allenatore della Juventus Jesse Carver, che passerà otto mesi sulla panchina dei Baggies prima di far ritorno in Italia, alla Lazio e che nel breve periodo alla guida del club introdusse nuovi metodi di allenamento tra cui, finalmente, esercizi con il pallone. Al posto di Carver arrivò, dal Bradford Park Avenue, Vic Buckingham. E fu la svolta.

Len Millard riceve la FA Cup 1954 dalle mani della Regina Madre

Len Millard riceve la FA Cup 1954 dalle mani della Regina Madre

Gli anni ’50 produssero infatti quello che fu chiamato con toni esageramente (ma forse solo per noi che non vivemmo quell’epoca) “the team of the century“, nello specifico durante la stagione 1953/54 nella quale la squadra sfiorò il double, vincendo la FA Cup e perdendo di poco il campionato dietro ai rivali di sempre del Wolverhampton Wanderers. Un gioco offensivo e fluido, esaltato dalla stampa e amato dai tifosi, tanto che in quel cammino di FA Cup per la partita contro il Newcastle si presentarono al the Hawthorns in 61.000, ma con 20.000 tifosi che rimasero fuori dallo stadio non potendo entrare perchè semplicemente non c’era più posto. Ronnie Allen, Don Howe, Bobby Robson in campo, tutti futuri manager (Allen una Copa del Rey vinta alla guida dell’Athletic Club, Howe visto con Arsenal e QPR oltre che WBA, Sir Bobby Robson e abbiamo detto tutto) e componenti di quella squadra che fu invitata tra le altre cose per una tournèè nell’est Europa, oltre la Cortina di Ferro per affrontare la temibile Honved (“Le soir festival de football” venne definito l’incontro), Zenit, Dynamo Tbilisi, CSKA. La cosa magnifica è che quella squadra vinse, alla resa dei conti, solo una FA Cup (gli anni ’50 sono gli anni dei Wolves di Stan Cullis, soprattutto): ma quando nonostante questo si riesce a scolpire il proprio nome nella storia vuol dire che qualcosa di importante si è fatto, che esula dai trofei. Buckingham nel 1959 prese l’aereo direzione Ajax, da sempre scuola di grandi allenatori e innovatori del calcio. Gordon Clark e Archie Macaulay non lasciarono il segno, e per risollevare le sorti del club venne chiamato Jimmy Hagan, autore di un piccolo miracolo a Peterborough portando dapprima la squadra in Football League per la prima volta, e in seguito vincendo la Division Four. Una delle prime mosse di Hagan fu firmare dal Notts County un giovane attaccante di nome Jeff Astle, da Eastwood, Nottinghamshire, direttamente nella leggenda Baggies.

Di quella squadra facevano già parte tra gli altri Anthony “Tony” Brown, record di goal nella storia del club e per questo detto “Bomber”, Clive Clark, Bobby Hope. Il primo successo fu la coppa di Lega del 1966, 5-3 tra andata e ritorno della finale contro il West Ham United. Hagan fu però sostituito nel 1967, tra l’altro dopo aver perso una nuova finale di League Cup contro il QPR all’epoca in Third Division, e rimpiazzato da Alan Ashman. Con Ashman alla guida il WBA centrò il quinto successo in FA Cup della sua storia (nonchè l’ultimo trofeo messo in bacheca ad oggi), un cammino segnato in tutti i sensi da Astle, “The King”, primo giocatore a segnare in tutti i round della competizione compreso l’unico goal della finale, che vide l’Albion opposto all’Everton. Astle divenne anche il primo giocatore a segnare nella finale di entrambe le coppe nel 1970, quando il West Brom perse 1-2 contro il Manchester City la finale di Coppa di Lega; Ashman venne sostituito da Don Howe, che abbiamo prima nominato come giocatore e che tornava ora nelle vesti di manager. La carriera da manager di Howe al WBA cominciò e finì malissimo, con la retrocessione del 1973 e la mancata promozione successiva, tanto che nel 1975 al posto di Howe venne chiamato alla guida del club Jimmy Giles, che non tardò a riconquistare la massima serie. Tuttavia Giles, che voleva concentrarsi sul ruolo di CT dell’Irlanda e che rimase quasi controvoglia, convinto dalla dirigenza, nel ruolo di manager anche per la stagione successiva, venne lasciato libero alla fine della stessa dal club. Ronnie Allen, compagno di Howe in campo, fu chiamato nuovamente dall’Albion ma, quando i petroldollari arabi bussarono alla sua porta (una storia che cominciava già allora), lasciò anch’egli libera la panchina di the Hawthorns. Per occuparla, venne chiamato Ron Atkinson dal Cambridge United, e “Big Ron” non tardò a lasciare il segno.

Jeff Astle e Bobby Hope con l'FA Cup 1968

Jeff Astle e Bobby Hope con l’FA Cup 1968

L’Albion di Atkinson è ricordato soprattutto per Laurie Cunningham, Cyrille Regis e Brandon Batson, “the Three Degrees” come li chiamava il manager e come passeranno alla storia (il riferimento è a un trio vocale in voga all’epoca), prima volta che una squadra inglese schierava contemporaneamente tre giocatori di colore, cosa oggi normale ma che purtroppo è da sottolineare visto che il calcio era fino a quell’epoca uno sport sostanzialmente per bianchi in terra d’Albione. Con loro, Bryan Robson, Derek Statham, Ally Robertson, una squadra che non vinse nulla ma che regalò emozioni ai tifosi, per il suo calcio divertente e attraente, oltre che comunque per eccellenti prestazioni in campionato, coppe nazionali (l’Albion all’epoca deteneva il record di maggior numero di semifinali disputate, record ora superato da Manchester United, Arsenal, Liverpool e Everton) e in Europa. Fu anche la prima squadra inglese a giocare in Cina (“Albion in the Orient” fu il documentario della BBC a riguardo). Poi i giocatori iniziarono ad essere ceduti (a partire da Cunningham, ceduto al Real Madrid e che proprio a Madrid, anche se in quel periodo giocando per il Rayo Vallecano, tragicamente scomparirà all’età di 33 anni), e sebbene all’inizio i rimpiazzi si dimostrarono all’altezza pian piano iniziò il declino. Tornò anche Allen, al posto di Atkinson nel frattempo partito direzione Red Devils. Poi fu la volta di Ron Wylie, e quando questi per dissidi con staff e giocatori si dimise, dell’A-Team, ovvero il trio fornato da Giles (che tornava così al West Brom), Nobby Stiles e Norman Hunter. Ma la squadra continuava a perdere le pedine migliori e così, alla fine della stagione 1985/85, conobbe nuovamente l’amaro gusto della retrocessione; a nulla servì l’arrivo in panchina di Ron Saunders.

Cunningham Batson e Regis, the Three Degrees

Cunningham Batson e Regis, the Three Degrees

A quel punto il club conobbe anche gusti più amari. Saunders rimase in carica, ma non riuscì a ottenere la promozione, anzi terminò il campionato nella parte bassa della classifica e venne sostituito da…Ron Atkinson, che tornava così all’Albion. I risultati non tardarono ad arrivare, e a metà stagione i Baggies guardavano tutti dall’alto della classifica: quando tutto faceva presagire il ritorno in First, Big Ron venne contattato dall’Atletico de Madrid, il manager si dichiarò disponibile a trasferirsi e si ritrovò così in Spagna, lasciando il WBA nelle mani di Brian Talbot nel ruolo di manager-giocatore. Inutile dire che non solo perdette la testa della classifica, ma pure un posto playoff; Talbot rimase in carica tuttavia, in tempo per condurre il club al ventesimo posto in campionato, il punto più basso a quel tempo raggiunto dal club. Ora, il perchè Talbot rimase comunque in carica è un mistero, fattostà che finalmente, nel Febbraio 1991, venne licenziato dopo una disastrosa sconfitta 2-4 in casa contro il Woking (non-league); arrivò Bobby Gould che suo malgrado entrò nella storia per essere stato il primo manager dell’Albion a retrocedere in Third Division. Gould non riuscì a centrare i playoff la stagione seguente, venne chiamato alla guida del Coventry City lasciando vacante il posto al the Hawthorns che venne preso dalla leggenda Spurs e dell’Argentina Osvaldo “Ossie” Ardiles. la cui unica stagione in quel di West Bromwich è ricordata con estremo piacere dai fans visto che si concluse con la fuoriuscita dalla palude della terza serie (3-0 nella finale playoff contro il Port Vale).

Un altro ex-Spurs, Burkinshaw, non riuscì al contrario di Ardiles a lasciare un’impronta nella storia recente dell’Albion, e venne licenziato. Si aprivano in quel momento lunghi anni nella mediocrità, sempre in Division One (il nuovo nome dell’ex Second Division dopo la nascita della Premier) ma sempre lontano dalle posizioni che contano. Una delle poche note positive di quegli anni fu l’esplosione di Lee Hughes, local boy e tifoso Albion arrivato dal Kidderminster Harriers nel 1997. Vi rimarrà fino al 2001, per poi tornare dal 2002 al 2004. La svolta in quanto a risultati si ebbe con l’arrivo in panchina di Gary Megson, dapprima con un piazzamento playoff (sconfitta contro il Bolton in semifinale) e poi con la promozione al termine della stagione 2001/02, di cui chi vi scrive conserva ancora alcuni articoli (all’epoca mi facevo comprare da un collega di mio padre i giornali inglesi alla stazione di Savona per leggere le notizie calcistiche) che celebrano la rimonta del WBA ai danni dei rivali del Wolverhampton Wanderers, 11 punti a 8 giornate dalla fine di distacco annullati dai Baggies in una cavalcata che terminò con le lacrime black & gold e la gioia a the Hawthorns. Cominciavano gli “yo-yo years“, con la squadra a fare la spola tra Premier e First Division/Championship: l’immediata retrocessione nel 2002/03 ne è testimonianza efficace.

Lee Hughes

Lee Hughes

Gli anni recenti come sempre li scorriamo velocemente, giusto per rimarcare l’ottima annata di Roberto di Matteo alla guida del club con il quale ha ottenuto la promozione in Premier e che lo ha lanciato verso una carriera che vede già in bacheca una FA Cup e una Champions League. E per sottolineare che, dopo anni altalenanti, l’Albion sembra aver trovato la sua collocazione fissa in Premier League . Ci preme maggiormente trattare la storia dei colori sociali e del smbolo del club. La prima maglia usata dal West Bromwich (all’epoca, come visto, Strollers) fu un completo bianco con banda diagonale blu, sostituito in seguito da una divisa a quattro quadrati stile Bristol Rovers, con due di essi blu e due rosso carminio; alternativamente a questa divisa ne veniva usata una completamente amaranto. I quadrati tornarono nel 1881/82, questa volta di colore bianco e giallo ma rimasero una sola stagione addosso ai giocatori del club, che già dal 1882 vestivano di “chocolate & blue” (anche se tecnicamente la divisa era azzurra) per poi adottare una maglia a righe sottili e orizzontali bianco-rosse. Il “chocolate” tornò nel 1883/84, questa volta abbinato al bianco, ma sparì nuovamente: venne conservata la divisa a due metà, diciamo così (Blackburn Rovers per farci capire), ma con colori rosso e azzurro. Finalmente, nel 1885, apparve la classica maglia a strisce verticali bianco-blu, ancora oggi divisa del club. Una maglia rosso-blu apparve brevemente nel 1889, così come una maglia completamente blu venne utilizzata durante i tornei di guerra nel periodo 1942/47.

E lo stemma del club? Uno dei più belli nel panorama calcistico inglese a nostro parere, il tordo (throstle, vocabolo del Black Country per indicare il thrush appunto) posato sul ramo di biancospino (hawthorn), entrambi ricordo del luogo d’origine dello stadio, come abbiamo visto sorto in un parco. Il tordo in realtà comparve molto prima del biancospino, quando negli anni ’80 del XIX secolo Tom Smith, club secretary, ebbe l’idea di rappresentare l’uccello posato sopra…una traversa. La traversa fu poi rimpiazzata dal biancospino, ma il tordo rimase visto che traeva origine, oltre ad essere uccello molto comune nella zona, dal fatto che un esemplare era tenuto in una gabbia in una delle prime public house dove la squadra si cambiava e che darà al club il primo nickname, “the Throstles” appunto. Uno dei primi simboli utilizzati dal club fu invece il nodo staffordshire, sulla maglia bianco-gialla citata precedentemente, e solo ad inizio anni ’70 comparve sulle divise il throstle con il biancospino. Nel 1972 fu la volta di una “A” stilizzata, contenente comunque il nostro amato tordo, mentre dal 1975 e per i dieci anni successivi fu la volta della sigla “W.B.A.”; ricomparve il throstle, che fu però nuovamente rimpiazzato, questa volta dal simbolo cittadino, fino al 2000. Nel 2006 il simbolo è stato leggermente modificato per questioni principalmente di diritti legali, includendovi il nome del club.

il vecchio the Hawthorns (wbapics.com)

il vecchio the Hawthorns (wbapics.com)

Rimane in sospeso una sola questione: il nickname “Baggies”. Qui non esiste una versione definitiva, ma solo leggende. Tony Matthews, storico del club, lo fa derivare dal bagmen, figura incaricata di trasportare i soldi dai mitici tornelli (turnstiles) fino alla cassa societaria, e che nel fare ciò doveva entrare in campo. “Here come the bagmen!” fu il preludio a “here come the Baggies!” riferimento ai giocatori. Un’altra versione vuole che furono i tifosi dell’Aston Villa a coniare i termine “baggies”, in riferimento ai baggy trousers indossati dai lavoratori delle fonderie locali. Le altre versioni le lasciamo alle parole del sempre interessante “the Beautiful History“, cogliendo così l’occasione di citare lo splendido sito:
“Another version claims that in early days of the club’s history, many of the supporters worked in the local ironworks and because of the intense heat, tended to wear very loose, baggy clothing. Since most of them would go straight to the match after work, it resulted in a very oddly attired bunch standing on the terraces at the Hawthorns, and led to the nickname of ‘Baggies’” (…) Finally, all labourers in the Black Country wore trousers from a thick material called `duck’. When new, it was snow white, but with frequent washing went a dark hue. When repairs were necessary, at knees and back, the dark trousers were repaired with snowy white `duck’. This gave a bulky appearance to the patch, so labourers with these patches were generally called Baggies, as they looked like flour bags“.

Raggiungere the Hawthorns è facile e comodo, visto che l’impianto è fornito della sua fermata di treno/metropolitana leggera. Da Birmingham New Street, via Smetwick Galton, e si arriva. Un viaggio da fare nella realtà dopo averlo fatto oggi virtualmente, alla scoperta di una realtà fortemente connotata sia in senso storico (tra le fondatrici della Football League, di successo nei primi anni) sia locale, stretta nella morsa tra Wolverhampton e Birmingham ma che non ha mai perso la sua identità, di cui il team è orgogliosa espressione.

Jeff Astle Gates

Jeff Astle Gates

Trofei

  • First Division: 1919/20
  • F.A. Cup: 1888, 1892, 1931, 1954, 1968
  • League Cup: 1966
  • Charity Shield: 1920, 1954

Records

  • Maggior numero di spettatori: 64.815 v Arsenal (FA Cup, 6 Marzo 1937)
  • Maggior numero di presenze in campionato: Tony Brown, 574
  • Maggior numero di reti in campionato: Tony Brown, 218

http://www.westbromwichalbionhistory.co.uk/