L’uomo che inventò il Sistema. E l’Arsenal

Diceva Bill Shankly che un club è formato da una santa trinità: l’allenatore, i giocatori e i tifosi. I dirigenti? Quelli servono solo a firmare gli assegni. Sottoscrivendo questa massima del grande manager del Liverpool, ci accingiamo a parlare di una delle tre componenti della trinità di un club che entrava negli anni ’20 senza grossi successi da esibire al Mondo, con alle spalle un trasferimento da una zona all’altra di Londra e che diventerà invece la squadra più vincente della capitale del regno, proprio grazie a quel manager, the man who made Arsenal. Da Kiveton Park, Yorkshire: Herbert Chapman.

Figlio di un minatore (e non che le alternative fossero molte, in quello Yorkshire), decise che invece di riempirsi i polmoni di polvere avrebbe provato a progettarle, ‘ste benedette miniere, e si iscrisse in quella che sarà la futura University of Sheffield al corso di ingegneria mineraria. Coltivava però anche un’altra passione, sinceramente più divertente: il football. Journeyman, cambiò più squadre che paia di scarpe, non verrà mai ricordato per le gesta da calciatore e concluse la carriera in quel di Northampton, non dopo però aver giocato per un club di Southern League del nord di Londra: il Tottenham Hotspur. Ma guarda un po’ il destino…

A Northampton cominciò la carriera di allenatore. Così come le miniere preferiva progettarle che lavorarci, così il calcio preferirà gestirlo, inventarlo, anzi di più: rivoluzionarlo. Un passo alla volta. A Northampton, ma non solo lì, la tattica non era esattamente all’ordine del giorno: per dire, Chapman racconterà di come era normale trovare due ali sulla stessa fascia, stile partita di calcetto con gli amici. Questa la situazione al suo arrivo. Ecco, in pochi anni da questo si passerà alle parole di Fleming, nazionale inglese in forza allo Swindon Town, che disperato dopo una sconfitta si rivolse a Herbert così: “you have something more than a team: you have a machine“. La genialità. Chapman aveva intuito che esisteva una cosa magnifica chiamata contropiede: lasciamoli attaccare, noi – organizzati difensivamente – li colpiamo di rimessa. Bingo. Vincerà un campionato di Southern League nel 1909, negli altri si posizionerà sempre nei primi tre posti. He had a dream: la Football League. Sfiga, l’unione tra le due leghe è a undici anni dall’essere realizzata, anche se Chapman propose già allora il sistema che poi verrà utilizzato dal 1920 in poi. Nel 1912 lo chiama il Leeds City, natio Yorkshire, ma soprattutto Second Division della Football League. Goodbye Northampton.

A Leeds non riuscirà mai a conquistare la promozione, che frettolosamente promise, anche se i risultati furono comunque ottimi – prese in mano una squadra che fronteggiava una rielezione in FL e la portò a pochi punti dalla prima divisione. Poi scoppiò la guerra, e Chapman decise di aiutare il suo Paese dirigendo una fabbrica di munizioni. Ecco, pensando che andrà a rendere grandi i Gunners la cosa può anche far sorridere, ma qui siamo sempre nell’ambito destino che si diverte. Tornerà a Leeds a fine ostilità ma si dimetterà improvvisamente. Motivazioni? Nessuna, apparentemente. Poco tempo dopo però scoppiò uno scandalo finanziario che coinvolse il club, il cui rifiuto di aprire i registri fiscali alle autorità venne considerata come prova di colpevolezza. Squalificati a vita in cinque, tra cui Chapman. Herbert dopo le dimissioni era andato a Selby, ovviamente Yorkshire, a lavorare in un’industria di carbone, e quando la squalifica lo colpì era già lontano dal calcio e in testa l’idea che i campi non li avrebbe più rivisti maturò in quel momento. Tra le altre cose, poco tempo dopo perse anche il lavoro a Selby, visto che la compagnia venne ceduta e a lui dissero grazie e arrivederci.

Manager dell’Huddersfield

A salvarlo arrivò però Ambrose Langley, manager dell’Huddersfield Town ed amico di uno dei – tanti, dieci – fratelli di Chapman che gli offrì un posto da assistente allenatore e soprattutto l’appoggio del club nel ricorso contro la squalifica, ricorso che vincerà. Il destino gli sorrise e un mese dopo, quando Langley dovette essere sostituito, Chapman venne nominato manager. Tatticamente riprese le idee di Northampton, aggiungiamo però un aspetto non ancora trattato: la scelta accurata dei giocatori sul mercato, giocatori che potessero essere adatti al suo sistema (con la s minuscola, quello con la S arriverà…). Creò dal nulla uno scouting, con osservatori che gironzolavano per i campi d’Albione a preparare resoconti da sottoporre all’attenzione del manager, e segnatevi anche questa alla voce “idee geniali”. Terzo posto alla prima stagione ma con una FA Cup in saccoccia, poi due titoli in back-to-back. Difesa e contropiede, tre trofei vinti con i Terriers, e basterebbe già per consegnarlo alla storia. Che poi l’Huddersfield vincerà anche il terzo campionato di fila, ma ormai Chapman aveva spedito le sue labbra indirizzo nuovo, più a sud.

L’Arsenal nel 1925 cercava un manager. I soldi c’erano e non erano un problema per Sir Henry Norris, lo stadio era appena sorto in quel di Highbury, quel che mancava erano i trofei, l’argenteria, quella che fa ricordare il tuo nome ai posteri. Il club mise un annuncio di lavoro sull’Athletic News: cercasi manager, astenersi perditempo, please (altri tempi, ma altri per davvero. Immaginatevi oggi un Zamparini qualunque…). Chapman, che era legato al natio Yorkshire e tutto quello che volete ma a cui l’idea di vivere e lavorare a Londra schifo non faceva visto che arrivava insieme a 2.000 sterline annue, rispose. Treno direzione Islington e firma sul contratto: era ufficialmente un Gunner. Diventerà THE Gunner.

Dal 2-3-5 al WM

Dal 2-3-5 al WM

Piccola parentesi, ma fondamentale. Nel Giugno del 1925 venne modificata dalla IFAB la regola del fuorigioco, portando da tre a due (portiere compreso) i giocatori necessari tra l’attaccante e la porta affinchè questo fosse in gioco: questo per favorire lo spettacolo e aumentare il numero di goal. Vince chi sa adattarsi, dicono. Chapman (con il contributo del suo nuovo capitano, Charlie Buchan) capì che senza un adattamento difensivo la squadra sarebbe stata sepolta dai goal – e in effetti ne buscarono 7 dal Newcastle. Oh, all’epoca vigeva il mitologico 2-3-5, ricordiamolo. Cosa fece in concreto Chapman? Abbassò il centrale di centrocampo sulla linea dei difensori, togliendogli i compiti di regia e allargando i due difensori originali; contestualmente portò due dei cinque attaccanti sulla linea della trequarti diremmo oggi, comunque, davanti ai due mediani rimasti. Nasceva il WM, il Sistema, il Metodo, chiamatelo come preferite. Fu l’ennesima trovata geniale di Herbert Chapman, quella che lo consegnò alla storia del calcio.

Chapman lo rese vincente anche perchè applicò questa nuova concezione al suo stile di difesa e contropiede. Due massime: 1) puoi attaccare quanto vuoi, ma non vuol dire che segnerai. L’occasione migliore per segnare è quando recuperi palla in difesa, perchè la squadra avversaria è sbilanciata e la puoi sorprendere; 2) ogni squadra che entra sul terreno di gioco ha un punto garantito; se non subisco goal, mal che vada mi prendo un punto. Geniale e veramente rivoluzionario, questo sì. Va detto che la fortuna del WM dipendeva in larga parte dalla qualità dei giocatori, perchè sostanzialmente con i due difensori larghi a marcare le ali avversarie e il centrale a uomo sul centravanti la chiave divennero i duelli individuali. Non a caso l’Arsenal di Chapman impiegherà cinque stagioni per vincere il primo trofeo, la FA Cup del 1930 (contro l’Huddersfield Town, e sempre il destino che si diverte…), dopo numerosi lifting di mercato effettuati. Ecco, però non si fermerà più, nemmeno dopo l’improvvisa morte del manager, nel 1934, a seguito di complicazioni per una polmonite. Chapman, convalescente da un brutto raffreddore, non volle perdersi un match della squadra riserve dell’Arsenal, solo che il freddo di Gennaio gli fu fatale. E’ sepolto a Hendon, dove risiedeva.

FA Cup 1930

Questo il profilo di Chapman, ciò che lo rende una leggenda del gioco. Tattiche innovative, scouting, addirittura la preparazione fisica affidata a specialisti, i numeri sulle maglie, l’intuizione di una competizione europea per club vent’anni prima che questa nascesse, l’essere stato il primo manager professionista della Nazionale (sebbene solo per un tour Europeo). Tutto molto bello e visionario per certi aspetti, e che influenzerà club in Inghilterra e in Europa. Però è the man who made Arsenal, e questo non può essere dovuto solo alle tattiche. Certo, i trofei: quelli aiutano, visto che prima di lui non si era vinto nulla e si tende a ricordare chi vince, non chi perde. Ma lo spirito soprattutto. Fece rinominare la stazione della metro di Gillespie Road in Arsenal, perchè “chi ha mai sentito parlare di Gillespie Road? Qui intorno è tutto Arsenal!”. Un giorno si alzò e decise che la maglia rossa era troppo banale: Liverpool, Forest…via l’all-red: fece aggiungere le maniche bianche, che ancora oggi sono l’Arsenal . Ma soprattutto si presentò così: “I am going to make this the greatest club in the world”. Herbert Chapman, l’ingegnere che rivoluzionò il calcio. Ora siede nel Pantheon di questo gioco che ci fa impazzire, insieme a pochi eletti; ma la sua casa rimarrà sempre e solo una.

Jordan Rhodes, la rivelazione dell’anno

Siamo stati dubbiosi a lungo: lo dedichiamo o no un post a Jordan Rhodes? Non perchè sia un argomento di scarso interesse o perchè ci faccia ribrezzo l’Huddersfield, squadra d’appartenenza del giocatore, che anzi è bello vedere di nuovo almeno nella Championship, ma perchè sarebbe un precedente, e dovremmo ogni volta che un giocatore fa una stagione strabiliante parlarne. Però allo stesso tempo ci siamo risposti che una stagione da 40 goals complessivi meritasse almeno qualche riga, prima che, chissà, tutti ne riparlino un giorno, quando Rhodes segnerà al Manchester United (glielo auguriamo, per inciso). Per cui sì, glielo dedichiamo.

Rhodes con il premio di Player of the Year

Jordan Luke Rhodes nasce a Oldham, vicino a Manchester, il 5 Febbraio 1990. Il padre, Andrew “Andy” Rhodes, portiere, giocava infatti per i Latics in quel periodo, in uno dei momenti migliori nella storia della squadra, tant’è che prese parte lui stesso alla finale di Coppa di Lega del 1990, persa dall’Oldham 0-1 contro il Nottingham Forest. Nello stesso anno però Andy si trasferì, famiglia al seguito, in Scozia, a giocare nel Dunfermline, esperienza a cui fece seguito il St Johnstone (dal 1992 al 1995) e l’Airdrieonians, con due parentesi inglesi in prestito, prima al Bolton e poi allo Scarborough (dove chiuse la carriera). Inglese di nascita, Jordan è cresciuto però in Scozia, dove iniziò anche a giocare a calcio, seguendo le orme del padre come portiere al Carneyhill, piccola società dell’omonima cittadina vicino a Dunfermline. Ma, come il passato del padre, anche il futuro di Jordan sarà in Inghilterra.

Approda nelle giovanili del Barnsley nel 2005 ma, quando il padre viene assunto dall’Ipswich Town come allenatore dei portieri lo stesso anno, il figlio lo segue nell’East Anglia, acquistato dai Tractor Boys per 5.000 sterline. Nel frattempo gli viene consigliato di provare a giocare in attacco (nonostante il padre, come dichiarato di recente, l’avrebbe voluto vedere in porta), decisione a posteriori saggia; così quando inizia a giocare per la squadra under-16, inizia nello stesso momento a segnare a raffica, tant’è che nella sua prima stagione passa dall’under-16 alla squadra riserve, segnando nel mentre più di quaranta goals e attirando l’attenzione della Nazionale inglese under-17, alla quale dovette però rinunciare a causa di un infortunio. E furono proprio gli infortuni a segnare la seconda stagione nell’Ipswich, stagione che non lo vide mai in campo come invece era immaginabile per un talento di quel calibro. Il debutto tra i grandi era dunque rimandato.

Viene, a inizio della stagione 2007/2008 (10 Ottobre), prestato un mese all’Oxford United, in quel momento in Conference. Con gli U’s gioca 4 partite di campionato, non andando mai a segno; segna invece una doppietta in FA Cup, partita vinta dall’Oxford 2-1 contro il Merthyr Tydfil. Prima del termine naturale del prestito l’Ipswich richiama Rhodes alla base, in quanto necessitava di lui per una partita di FA Youth Cup (competizione molto importante, la più importante a livello giovanile), causando così la reazione dell’Oxford, che evidentemente credeva molto nel giocatore e avrebbe volentieri prolungato il prestito. “It’s a shame but Ipswich have asked for him back so all we can do is thank him for his efforts here“, dichiarò il manager degli U’s, Jim Smith, il quale aggiunse “Jordan is a player with a bright future ahead of him“. Profetico.

Viene aggregato alla prima squadra, collezionando un totale di 8 presenze e segnando il suo primo goal in campionato, il 9 Aprile 2008 contro il Cardiff City. Ma evidentemente non bastava quel goal per convincere lo staff dell’Ipswich, che a Settembre del 2008 lo manda nuovamente in prestito, questa volta in League Two al Rochdale, sempre per un mese. Con il Dale gioca 5 partite e segna 2 goal; torna all’Ipswich, dove però non c’è ancora spazio per lui. Così la squadra lo rimanda in prestito in League Two, questa volta al Brentford, un’esperienza che doveva essere originariamente mensile ma che viene estesa quasi subito al termine della stagione. E finalmente Rhodes ha l’opportunità di giocare con continuità: i Bees sono la squadra più forte del campionato (che vinceranno) e Jordan contribuisce alla promozione con 7 goals in 14 partite, tra cui una tripletta contro lo Shrewsbury che lo fa diventare il più giovane autore di un hat-trick nella storia del club. Un infortunio al dito del piede lo costringe al rientro anticipato all’Ipswich e chiude la sua stagione.

Due indizi fanno una prova si dice; noi lo modifichiamo con tre stagioni fanno una prova, la prova che all’Ipswich poco credevano nel ragazzo, forse per i tanti infortuni, o forse per ragioni squisitamente tecniche (la storia è piena di talenti bocciati in prima istanza da qualche club poi pentitosi). Fattostà che, quando il manager dell’Huddersfield Lee Clark bussa alla porta dell’Ipswich, questi rispondono ok: Rhodes diventa così un Terrier. Clark ci aveva visto giusto: 23 goal totali la prima stagione, 22 la seconda, 40 nell’ultima, magnifica annata culminata nella promozione del club dello Yorkshire, giocando rispettivamente 45, 37, 40 partite in campionato, segno che gli infortuni lo hanno lasciato tranquillo. Ovviamente è proprio quest’ultima stagione ad aver portato Rhodes all’attenzione di tutti, da addetti ai lavori ad appassionati: 36 goals in campionato, di cui 5 in una partita (contro il Wycombe) e 4 in un’altra (Sheffield Wednesday), 6 triplette finali, il titolo di Giocatore dell’Anno della League One e la convocazione in Nazionale.

Proprio la Nazionale è argomento interessante, visto che, già a livello under-21, Rhodes ha optato per giocare nella Scozia (seguendo il percorso di un mito come Denis Law, giocatore dell’Huddersfield e della Scozia), per la quale è convocabile grazie agli almeno 5 anni di scuola fatti nel Paese di Braveheart e delle cornamuse. 8 presenze e 8 goals totali con l’Under sono stati il preludio, insieme alla strepitosa forma mostrata all’Huddersfield, alla convocazione in Nazionale maggiore, con la quale ha debuttato l’11 Novembre 2011 contro Cipro, subentrando nei minuti finali. Se a prima vista può sembrare una scelta di comodo (reputando magari irraggiungibile la Nazionale inglese), Rhodes ha invece detto di sentirsi pienamente scozzese, nonostante sia per origini famigliari e di nascita inglese a tutti gli effetti. “It was never in doubt I would be sticking with Scotland. I’m Scottish through and through. I had all the jerseys as a kid and grew up watching Scotland“.

Ora le voci di mercato, come inevitabile che sia, si susseguono. Già a Gennaio alcune società, West Ham su tutte, hanno mostrato interesse per il 22enne di Oldham; l’Huddersfield, ovviamente, ha rifiutato qualsiasi avances, impegnato com’era nella corsa promozione. Quest’estate sarà sicuramente più calda, e due squadre, Celtic (squadra del cuore di Rhodes) e Fulham hanno mostrato interesse. Sarà difficile per l’Huddersfield trattenere Rhodes, nonostante il diretto interessato non sembri molto interessato alle voci di mercato. “You guys can make up the stories or whatever they might be, rumours or whatever. They don’t tend to affect my mindset” ha dichiarato al Daily Mail poco prima della finale di playoff contro lo Sheffield United. Sicuramente la sua attenzione, prima che al mercato, è rivolta alle Olimpiadi: Rhodes è stato infatti incluso nella pre-selezione del Team GB, e ai primi di Luglio sapremo se farà parte della squadra olimpica britannica.

Ma che giocatore è Jordan Rhodes? Attaccante di buona stazza (1.88 m, o se preferite 6 piedi e 2 pollici), trae la sua forza da un mix di caratteristiche. Usiamo parole trovate in rete: “He is not a fox-in-the-box, he is not a big target man and he is not a speed merchant who can dribble past the whole team. He is a very decent mixture of all those attributes“. Ma soprattutto, e questo è il tratto distintivo di un attaccante, possiede l’innato e non-insegnabile fiuto per il goal, il feeling con il pallone, il capire sempre dove questo vada a finire, oltre a una capacità di finalizzare notevole, unita alla freddezza. La capacità di far salire la squadra è invece il suo punto debole, visto che, spalle alla porta, perde del tutto la sua efficacia, per cui ben si integrerebbe con attaccanti più “fisici” e magari meno goleador. Come lo ha definito Mark Wotte, attuale dirigente della FA scozzese, “he is the best goalscorer in the UK“. E vedremo se lo confermerà.

He made the people happy

La storia del calcio celebra troppo poco spesso gli allenatori. Certo, si parla del Milan di Sacchi/Capello o dell’Inter di Herrera, ma se c’è da spendere una parola in più la si spende con maggior voglia, solitamente, per Johan Crujff piuttosto che per Rinus Michels, o per Michel Platini piuttosto che per il Trap nazionale, e sono altresì certo che i più distratti non ricordano il nome del CT del Brasile 1970, ma si ricordano benissimo di Pelè, Rivelino, Tostao, Gerson, Jairzinho. Il post di oggi invece vuole invece celebrare, in breve e senza velleità di onniscienza, la figura di un allenatore, l’uomo che diede il via al dominio del Liverpool sul calcio inglese (ed europeo) anni ’70 e ’80: Bill Shankly.

Bill Shankly giocatore, al Preston North End

William “Bill” Shankly nasce a Glenbuck, Scozia, il 2 Settembre 1913, nono di dieci figli. La passione per il calcio gli viene probabilmente trasmessa (a lui e ai suoi 4 fratelli maschi) dal ramo materno della famiglia: uno zio, Robert, giocò nei Rangers e nel Portsmouth – di cui fu anche presidente – mentre un altro zio di nome William militò (e vedremo subito come questa sia una coincidenza con il nipote) nel Preston North End e nel Carlisle Utd. E proprio da Carlisle, cittadina di 72.000 abitanti della Cumbria, nemmeno troppo casualmente la contea inglese più vicina all’Ayrshire dove nacque Shankly, cominciò la carriera professionistica del giovane Bill. Una stagione in maglia rossoblu, 16 presenze, e il passaggio per 500£ al glorioso Preston North End, allora militante in Second Division, subito promosso in First Division con il 21enne Shankly in campo. Con i Lilywhites Shankly disputò anche due finale di F.A. Cup, nel 1937 contro il Sunderland perdendola, e nel 1938 contro l’Huddersfield portando a casa il trofeo. Giocò anche 4 partite con la maglia della Nazionale scozzese, esordendo tra l’altro a Wembley nel match vinto per 1-0 contro l’Inghilterra.

Ad interrompere la carriera agonistica di Shankly fu la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale lo sport passò in comprensibile secondo, se non terzo piano: Bill giocò durante la guerra per numerose squadre a livello amatoriale (Bolton, Arsenal, Liverpool, Northampton, Luton Town, Cardiff City, ed in Scozia per il Partick Thistle), ma quando la guerra finì e il professionismo tornò in vigore Shankly, a 33 anni compiuti, dovette riconoscere la vittoria dell’età sulla voglia di giocare e appese le scarpe al chiodo. Era il 1949, e Shankly rimase per poco disoccupato: il Carlisle United infatti, la sua prima squadra da giocatore, gli offrì la posizione di manager, dando il via alla sua seconda vita sportiva, che, come vedremo, fu colma di successi. Ecco, adesso chi si aspetta il giovane manager rampante che in pochi anni scalò le vette del calcio inglese rimarrà deluso. La carriera al Carlisle finisce dopo 2 stagioni, che videro sì un netto miglioramento della situazione del club, passato dal 15esimo al 3 posto in Division 3 North, ma anche le dimissioni di Shankly, che accusò la dirigenza dei Cumbrians & blue di non voler investire denaro nel club, insomma, di non avere ambizioni.

Shankly con la F.A. Cup del 1974

La seconda tappa della carriera da manager di Shankly fu il Grimsby Town. La squadra era reduce dalla seconda retrocessione in pochi anni e si trovava nell’ormai nota Division 3 North; si trattava di una squadra vecchia, ma il nucleo che la costituiva rimaneva quello che giocò in Second Division, argomentazione che Shankly fece sua nel tentativo di convincere i suoi giocatori che potevano ancora fare molto. E in effetti sembrò essere così, perchè nella prima stagione alla guida della squadra questa fallì, sfiorandola, la promozione, ma giocò un calcio molto bello tanto che Shankly nella sua autobiografia scrisse non senza una punta di autocelebrazione “Pound for pound, and class for class, the best football team I have seen in England since the war. In the league they were in they played football nobody else could play“. Il pubblico sembrava gradire, dato che Blundell Park superava le 20.000 presenze a partita, ma l’avventura, anche questa volta, terminò bruscamente: dopo una seconda stagione altalenante e con la squadra ormai da rifondare, Shankly si dimise, portando come ragione di ciò la mancanza di ambizione della dirigenza. Ancora una volta. Era il 1954, e il Liverpool nel frattempo stava precipitando in Second Division.

Una sola stagione al Workington (1954/1955), conclusasi all’ottavo posto della ormai stracitata Division 3 North, fu il preludio al passaggio all’Huddersfield Town, dove Shankly divenne assistente dell’allora manager Andy Beattie, reduce da un deludente dodicesimo posto in First Division (la squadra ne veniva infatti da un terzo posto). Shankly rimase all’ombra di Beattie per una sola stagione, culminata con la disastrosa retrocessione dei Terriers in Second Division. Divenuto manager, Shankly non riuscì nelle tre stagioni successive a riportare l’Huddersfield nella massima divisione, dovendosi accontentare di tre piazzamenti a metà classifica e del lancio tra i professionisti di un giovane calciatore, scozzese come lui di nome Denis Law; Shankly si oppose più volte alla cessione di Law, affermando come il ragazzo avrebbe potuto valere da lì a poco 100.000 sterline. Sbagliò inizialmente, perchè Law venne ceduto al Manchester City (Shankly ormai era già a Liverpool) per 55.000 sterline, ma successivamente passò al Manchester United per 115.000, un trasferimento che vide compiuta la profezia di Shankly (e rese immortale Law, ma questa è altra storia che magari tratteremo).

Shankly's Gates, Anfield

Si arriva così alla stagione 1959/1960. L’allora presidente del Liverpool Thomas Valentine Williams aveva già, in passato, messo Shankly in cima alle preferenze, preferendogli tuttavia altre soluzioni. Ma dopo una disastrosa sconfitta in F.A. Cup contro il Worcester City (Gennaio 1959) e le dimissioni di Phil Taylor nel Novembre dello stesso anno, sembrava giunto il momento per un “uomo nuovo” in grado di guidare la squadra fuori dal pantano in cui era finita, e di ristrutturarla sotto tutti gli aspetti: quell’uomo venne individuato appunto in Shankly. Al suo arrivo ad Anfield trovò una situazione disastrosa. Campi di allenamento fatiscenti, squadra povera di talento, mancanza di cultura tattica: basterebbero queste tre cose per capire la rivoluzione che Shankly portò nel Merseyside. Trasformò la struttura di allenamento di Melwood in una forza per la squadra, potenziando i programmi di fitness, di dieta, introducendo nuove tecniche di allenamento e trasportando la squadra da Anfield al campo di allenamento in bus con lo scopo di cementare lo spirito di squadra; rilasciò 24 giocatori, e creò la mitologica Boot Room ad Anfield, trasformando un magazzino in una sala destinata alle riunioni tattiche sue e del suo team di collaboratori, che comprendeva Reuben Bennett, Joe Fagan e Bob Paisley (un nome che dovrebbe evocare qualcosa..).

Sarebbe dispersivo elencare qui stagione per stagione la carriera di Shankly al Liverpool. Basterà ricordare i primi acquisti, l’attaccante Ian St John dal Motherwell (scusate, ma non resisto: la famigerata frase “Jesus saves, but St John scores from the rebound” rimane la mia preferita) e il centrocampista Ron Yates dal Dundee United, che contribuirono alla risalita dei Reds in First Division (1961/1962), a cui si aggiunsero una volta raggiunto l’obbiettivo Willie Stevenson dai Rangers (terzo acquisto da una squadra scozzese) e Peter Thompson dal Preston North End per una cifra intorno alle 40.000 sterline. La squadra, potenziata nell’organico e nella struttura di base, vinse il titolo del 1964, partecipando così alla Coppa dei Campioni l’anno successivo, dove dovette arrendersi all’Inter di Herrera (3-1 Reds ad Anfield, 3-0 interista a Milano, la partita di  When the Saints go marching in diffusa a tutto volume nello stadio). La delusione europea fu mitigata dalla conquista della prima F.A. Cup della storia del Liverpool, contro il Leeds. Il 1965/1966 vide nuovamente i Reds sul tetto d’Inghilterra, ma nuovamente sconfitti in Europa: la finale di Coppa delle Coppe venne infatti persa contro i tedeschi del Borussia Dortmund per 2-1 all’Hampden Park di Glasgow.

La celebre foto di Shankly sotto il Kop

La fine degli anni ’60 coincise con la fine del primo ciclo targato Shankly. La squadra venne ringiovanita, con gli addii di Hunt, St John, Yeates, Lawrence e gli acquisti di Heighway, Clemence, Toshack e soprattutto di Kevin Keegan. Nasceva il secondo grande Liverpool, che vinse il titolo nel 1973 e soprattutto riuscì finalmente a mettere in bacheca il primo di tanti trofei europei: la Coppa UEFA, vinta contro il Borussia Monchengladbach (3-0 ad Anfield, 0-2 per il Borussia al ritorno). L’F.A. Cup 1974 è l’ultimo trofeo targato Shankly, che nel Luglio di quell’anno decise che era ormai giunto il tempo di dedicare tempo alla famiglia. A 61 anni, il manager rassegnò le dimissioni, venendo sostituito alla guida del club da quel Bob Paisley suo storico collaboratore. Tuttavia non fu facile staccare con il calcio per Shankly. Si pentì delle dimissioni, iniziò a frequentare nuovamente, ma stavolta da privato cittadino (non gli fu mai offerto il ruolo di dirigente del club) Anfield e Melwood, di cui era padrone assoluto riconosciuto; la dirigenza non gradì, e gli vietò l’ingresso negli impianti, timorosa che la sua costante presenza, e ingombrante in certi sensi, togliesse credibilità al nuovo manager, anche perchè dicono le fonti che venisse chiamato ancora da tutti “boss”, mentre Paisley doveva accontentarsi di un poco consono al suo ruolo “Bob”.

Un infarto si portò via Bill Shankly il 29 Settembre 1981, lasciando il Mondo del calcio nella più totale disperazione: tra i vari episodi mi piace citare John Toshack, ex giocatore di Shankly che durante il minuto di silenzio (la partita era Liverpool-Swansea, Toshack allenava i gallesi) indossò la maglia red in ricordo del suo vecchio allenatore. La morte lo portò via solo fisicamente, perchè lo spirito di Shankly vive tutt’oggi ad Anfield. Il rapporto con i tifosi fu uno dei suoi grandi punti di forza, forse per una vicinanza di estrazione culturale (la working class), forse perchè, nella sua mente che definiremmo moderna, Shankly aveva intuito il potenziale di quello stadio e l’importanza dell’empatia tra manager, squadra e tifosi, e fece di tutto per creare quell’atmosfera che ancora oggi fa tremare le gambe a chi entra ad Anfield Road. Il rapporto con i tifosi, dicevamo: la foto di Shankly sotto il Kop, il celeberimmo settore dei tifosi di casa, con la sciarpa al collo, una sciarpa lanciatagli dai tifosi e che un poliziotto aveva incautamente spostato da una parte beccandosi il rimprovero dello stesso Shankly (“Don’t do that. This might be someone’s life“), rappresenta al meglio quel rapporto che si era venuto a creare tra manager e tifoseria. Grande motivatore, grande oratore (“Certa gente crede che il calcio sia una questione di vita o di morte. Questa mentalità mi delude. Vi posso assicurare che è molto più importante”, tra le tante massime), grande allenatore, le cui squadre giocavano un calcio fatto di fitti passaggi in velocità, grande innovatore, Shankly fu molto di più, e rimango convinto che solo un tifoso del Liverpool può apprezzare al meglio quello che fu realmente. E nonostante il Liverpool targato Paisley vinse di più, senza l’apporto di Shankly la dinastia Reds non sarebbe forse mai nata.

Un giorno disse: “I was only in the game for the love of football – and I wanted to bring back happiness to the people of Liverpool“. Nel 1998 gli dedicarono una statua, posta fuori Anfield, riportante l’epigrafe “he made the people happy“. Beh, direi che ci sei riuscito, Bill.

La statua posta fuori Anfield. He made the people happy