Le maglie della Premier, puntata speciale: Lillywhites

Eccoci ritornati, dopo molto tempo, con la rubrica sulle maglie. Oggi però, rispetto alle puntate abituali, c’è un cambiamento. Non parleremo delle divise di qualche squadra di Premier, ma di uno dei posti più famosi in cui comprarle.

Al centro di Londra, a poche centinaia di metri da Oxford Street, ed in particolare alla fine di Regent Street, nella famosa Piccadilly Circus, si trova uno dei più antichi e grandi negozi di sport della capitale inglese.

Situato nell’enorme palazzo con davanti la famosissima statua, Lillywhites si sviluppa su un totale di 10 piani, all’interno dei quali è possibile trovare sia attrezzature sportive di tutti i tipi, sia scarpe, maglie, e vestiario per il tempo libero.

Il piano che interessa noi, però, è il 2nd floor. Arrivando dalle scale, un appassionato di calcio non potrà che rimanere a bocca aperta trovandosi di fronte una stanza, di dimensioni importanti, completamente rivestita di maglie da calcio, tute, pantaloncini e tutto ciò che una squadra professionistica ha da offrire per quanto riguarda l’abbigliamento. Come si può vedere dalla foto, sia sulle pareti, tanto al centro della sala, sono presenti tutte le maglie delle più importanti squadre della massima serie inglese, sia quelle delle più famose squadre estere.

La caratteristica più importante però, oltre la quantità, riguarda i prezzi. Lillywhites infatti, oltre ad avere prezzi di partenza molto bassi, nei periodi disaldi (luglio/agosto e ottobre/novembre solitamente) ribassa ulteriormente i prezzi, così che si possono trovare maglie della stagione in corso a poco più di 40 euro l’una, e maglie della stagione precedente ribassate alle volte anche a meno di 10 euro. In particolare su uno stand si trovano ogni tanto quelle maglie che loro definiscono fallate ma che spesso in realtà non sono altro che sporche, e che proprio per questo vengono vendute a prezzi da mercatino. Io stesso ho trovato una maglia della nazionale inglese, con nome e numero, a 5 sterline solo per la presenza di una macchia su una manica, macchia sparita dopo il primo lavaggio.
   Molto interessante la parte dedicata alla nazionale. Infatti, oltre alle maglie contemporanee della rappresentativa di Roy Hodgson, si possono trovare molte riproduzioni delle maglie che hanno fatto la storia del calcio inglese, come ad esempio quella indossata nella sfortunata semifinale degli Europei del 1996 persa contro la Germania.

Allo stesso modo si possono trovare alcune riproduzioni delle maglie passate delle squadre di club più famose in Inghilterra, quali Chelsea, Aston Villa, Manchester City, solo per citare alcuni esempi.

Insomma, se vi trovate a Londra, e volete portarvi via un ricordo “calcistico” del Paese con il più bel campionato del mondo, salite su un double-decker, arrivate a Piccadilly Circus, fatevi una foto ricordo davanti alla statua, e poi entrate nel sogno di qualsiasi appassionato. Non ne resterete delusi, ve lo assicuriamo.

Viaggio nella Londra del calcio: Chelsea

Chelsea Football Club
Anno di fondazione: 1905
Nickname: Blues
Stadio: Stamford Bridge, Fulham Road, London SW6
Capacità: 41.837

“Blue is the colour, football is the game / We’re all together and winning is our aim / So cheer us on through the sun and rain / ‘Cos Chelsea, Chelsea is our name”. Chelsea è il loro nome, blu il loro colore, vincere il loro obbiettivo, e quest’anno hanno vinto la coppa più importante, quella che nessuna squadra londinese era riuscita a vincere prima. Per questo motivo gli concediamo l’onore dell’ultimo post dedicato a una squadra (ce ne sarà un altro, ma che raggrupperà tre squadre) del nostro viaggio londinese. Chelsea è un quartiere in di Londra, uno dei più belli, di quelli che appaiono nei film, e anche se lo stadio è geograficamente posto a Fulham, nel borough di Hammersmith & Fulham, è in realtà sul confine tra questo e il borough di Kensington & Chelsea dove ha appunto sede il quartiere da cui prende il nome la squadra. Ci si arriva comodamente via Tube, scendendo alla fermata di Fulham Broadway sulla District Line, appena fuori dalla stazione si svolta a sinistra e in pochi istanti compare Stamford Bridge nella sua bellezza color crema. Nei giorni delle partite l’ingresso in metropolitana per il ritorno è particolarmente difficoltoso, e bisogna stare attenti perchè spesso la polizia divide la fila in due, a seconda della direzione che si intende prendere; per chi va verso il centro, generalmente la fila è quella di destra, meglio saperlo prima per poi non dover rifare tutto come capitato a noi. L’atmosfera è comunque molto bella, ma questo è inutile dirlo visto che si parla di english football.

Il Chelsea Football Club nasce nel 1905, ma è necessario un piccolo passo indietro. Nel 1896 infatti Henry “Gus” Mears, uomo d’affari e appassionato di calcio, comprò insieme al fratello Joseph Mears il terreno dello Stamford Bridge Athletics Ground: l’intento, come visto nel pezzo dedicato al Fulham, era quello di convincere i Cottagers a trasferirsi lì, a giocare in quell’impianto. Il Fulham rifiutò, gettando nello sconforto Mears, che fu sul punto di cedere il terreno alla Great Western Railway Company, la quale necessitava di un deposito di carbone. Solo l’insistenza di un collega di Mears, Frederick Parker, fece sì che “Gus” cambiò idea e, invece di accogliere il Fulham o vendere il terreno, fondò la propria squadra di calcio, che avrebbe appunto giocato a Stamford Bridge. Abituati come ormai siamo a squadre che cambiano innumerevoli impianti, siamo qui invece di fronte a un club che nasce addirittura dopo lo stadio, in funzione di esso. Il 10 Marzo 1905 al Rising Sun pub in Fulham Broadway (ora “The Butcher’s Hook”, per chi fosse interessato) venne così fondato il…e bisognava dare un nome a questa squadra; Fulham, il nome del quartiere, venne eliminato per ovvi motivi (esisteva già una squadra con quel nome), così come London FC, Kensington FC e Stamford Bridge FC. Si optò alla fine per il nome del quartiere adiacente, Chelsea appunto, da cui derivò anche il colore delle maglie, il blu del Visconte di Chelsea, Henry Cardogan. Stadio, squadra, maglie, in quest’ordine: tutto era stato sistemato, e tutto come lo conosciamo oggi (certo, lo stadio ha subito le ovvie modifiche).

La casa naturale per le squadre londinesi era, come abbiamo visto e ad eccezione dell’Arsenal, la Southern League, alla quale il Chelsea chiese l’ammissione. Il parere negativo di Tottenham e Fulham fu però decisivo nel rifiuto da parte della Southern League dell’iscrizione al Chelsea; Mears e Parker si rivolsero così alla Football League che, a sorpresa, accettò il Chelsea tra le sue fila, anche grazie a un enfatico discorso di Parker in occasione del meeting annuale della lega (durante il quale venne esaminata la candidatura dei Pensioners, all’epoca nickname del club e vedremo in seguito perchè), discorso che pose l’accento sulla solidità economica del club e sulle strutture all’avanguardia di Stamford Bridge. Il Chelsea venne dunque iscritto alla Division Two della Football League, terminando la sua prima stagione al terzo posto. Manager (e allo stesso tempo giocatore) era lo scozzese John Robertson, il quale disponeva di una squadra composta da giocatori già “professionisti”, particolare che specifichiamo per rimarcare un’altra distanza tra l’esperienza del Chelsea rispetto a quelle già viste di squadre nate da scuole, club di cricket, fabbriche etc. Robertson lasciò il Chelsea nel 1907, per andare al Glossop: incomprensioni con la dirigenza, soprattutto l’interferenza di questa negli affari di campo portarono il manager lontano da Stamford Bridge. William Lewis, segretario del club, lo sostituì, guidando il Chelsea alla promozione in Division One; tra gli artefici del successo anche George “Gatling Gun” Hilsdon, primo di una lunga serie di grandi attaccanti in casa Blues (99 goal in campionato con la maglia del Chelsea per lui).

Lewis, portato a termine il compito, da buon soldato si fece da parte (d’altronde era stato fin da subito chiaro che il suo sarebbe stato un incarico a tempo), e venne sostituito da David Calderhead, ex allenatore del Lincoln il quale, proprio con il club del Lincolnshire aveva eliminato il Chelsea dall’FA nella stagione precedente, impressionando i dirigenti londinesi. Calderhead rimarrà in sella a Stamford Bridge per i ventisei anni successivi. Le prime stagioni non furono eccezionali, con il club che tornò anche in seconda divisione, salvo poi risalire e retrocedere nuovamente nell’ultimo campionato prima della guerra, dopo la quale tuttavia (come abbiamo già visto nei due viaggi precedenti) venne ripescato. Nonostante in campionato le cose non andassero a meraviglia, arrivò la prima finale di FA Cup nella storia del club: 1915, una sconfitta 0-3 contro lo Sheffield United passata alla storia come “Khaki final“, nome che deriva dalla larga presenza di soldati sulle tribune, dovuto ai venti di guerra che attraversavano l’Europa e il Regno Unito (“khaki” era il colore delle uniformi, e per estensione i “khakis” erano i soldati dell’esercito di sua Maestà). Alla sconfitta in finale, alle prestazioni altalenanti in campionato faceva da contraltare la media spettatori del Chelsea, che rimase la più alta nell’intero panorama calcistico inglese dal 1907/08 al 1913/14: non era inusuale vedere 60.000-70.000 spettatori a Stamford Bridge (il primo derby di massima serie tra due squadre londinesi, Chelsea-Woolwich Arsenal, attirò 55.000 spettatori, mentre una sfida contro il Manchester United ne portò 67.000). il Chelsea attirava un gran numero di spettattori sia per il suo gioco offensivo, sia per l’abitudine nel firmare giocatori famosi (oggi si direbbe “top-player”, termine che leggerete su questo sito per la prima e ultima volta), sia per le strutture all’avanguardia di Stamford Bridge, che infatti fu sede di diverse finali di FA Cup.

La prima squadra del Chelsea

Proprio uno dei giocatori firmati dal club per la prima stagione del dopoguerra, Jack Cock, fu uno dei fautori del terzo posto nella stagione 1919/20, con i suoi 24 goal che aiutarono il Chelsea a raggiungere quello che era il massimo all’epoca non solo per il club ma per qualsiasi altra squadra londinese; quella stessa stagione in FA Cup i Pensioners si piegarono solo all’Aston Villa in semifinale. Fu però un caso isolato: nel 1923/24 la retrocessione riportò il Chelsea nella palude della seconda divisione, palude nella quale rimase invischiato fino al 1929/30. In occasione del ritorno nella massima serie venne messa in piedi una sontuosa campagna di rafforzamento (una caratteristica che connoterà sempre il Chelsea) che portò a Stamford Bridge Hughie Gallacher, Alec Cheyne, Alex Jackson per la cifra complessiva di 25.000 sterline. Gallacher in particolare era un nome non altisonante, di più: aveva guidato il Newcastle al titolo, segnando per i Magpies 133 goals in 160 partite; era sceso in campo (con Jackson) a Wembley, nella vittoria della Scozia (i Wembley Wizards) contro l’Inghilterra per 5-1; era insomma una vera e propria star (terminerà la carriera con 554 partite e 406 reti). Nonostante le 72 reti di Gallacher (fu il miglior marcatore della squadra in ognuna delle quattro stagioni trascorse a The Bridge), Jackson e Cheyne non offrirono le prestazioni attese, e la stessa star scozzese incappò in una serie di problemi, personali (che culminarono in un costoso divorzio) e sul campo (numerose sospensioni, la più lunga di due mesi per offese a un arbitro). Il trio scozzese non ripagò dunque le – elevate – attese.

Calderhead lasciò il club nel 1933 senza aver vinto nulla, nonostante l’aggressiva politica sul mercato; il suo posto venne preso da Leslie Knighton, che abbiamo già incontrato nella storia dell’Arsenal. I risultati, tuttavia, non mutarono, e nonostante la lunga serie di giocatori talentuosi che vestirono in quegli anni la maglia blu del club (oltre i tre citati scozzesi, i nazionali Tommy Law, Sam Weaver, Syd Bishop, Harry Burgess, Dick Spence, Joe Bambrick), il massimo ottenuto in campionato fu un misero ottavo posto. Ironia della sorte, il miglior giocatore di quel periodo fu George Mills: l’ironia risiede nel fatto che Mills costò al club…zero sterline (firmò a 21 anni, proveniente dal Bromley), mentre invece aiutò la causa Chelsea con 118 goals in campionato, a differenza di pagate star. Come già negli anni 10, anche nei 30 a risultati non spettacolari corrisposero invece medie spettatori eccellenti: gli 82.905 della sfida contro l’Arsenal del 12 Ottobre 1935 rimangono, oltre a un record per il Chelsea, il secondo numero di spettatori di sempre per una partita del campionato. Il periodo tra le due Guerre terminò con la fine del regno di Knighton, sostituito da Billy Birrell, il quale dovette aspettare la ripresa delle competizioni per entrare veramente in carica (durante la guerra si giocavano tornei locali e non ufficiali, di cui infatti parliamo raramente). Da segnalare, prima del 1946 (l’anno della ripresa ufficiale dei tornei calcistici), l’amichevole con la Dynamo Mosca (in tour celebrativo) che portò a Stamford Bridge circa 100.000 spettatori. Era il 1945.

Hughie Gallacher

Come i predecessori, anche Birrell legò i costosi trasferimenti agli insuccessi. Arrivarono Tommy Lawton, Len Goulden e Tommy Walker per 22.000 sterline, e nonostante a differenza del precedente trio segnarono e rispettarono le attese, il Chelsea non terminò mai nelle prime dieci squadre del campionato. Non solo: alla data del 1948, i tre avevano già lasciato Stamford Bridge (e il calcio, nel caso di Goulden). A differenza dei predecessori, però, Birrell lasciò il segno, e nonostante non sarà lui a cogliere i frutti del suo lavoro, il suo impegno nella costruzione di un settore giovanile all’avanguardia fu decisivo per le sorti del club. Consapevole dell’importanza di formare “in casa” i giocatori per abbattere i costi dei trasferimenti e forse memore dei fallimenti nell’ambito calciomercato del Chelsea, Birrell affidò a tre ex-giocatori, Dickie Foss, Dick Spence e Jimmy Thompson, un programma di Academy e di scouting che, nel giro di qualche anno, porterà al club alcuni tra i maggiori talenti del periodo (i nomi li faremo dopo…). Birrell lasciò nel 1952 il posto al primo manager vincente della storia del Chelsea, l’ex attaccante dell’Arsenal Ted Drake. La prima novità introdotta da Drake fu in ambito extra-campo: insistette per rimuovere il “Pensioner” dalla simbologia del club (il Chelsea pensioner è un ospizio militare, svelato l’arcano), e conseguentemente dal nickname, che diventò da allora “Blues”. Il simbolo passò quindi dal vecchio militare bonaccione a, dapprima, le lettere “CFC”, in seguito al leone rampante ispirato dallo stemma del Metropolitan borough of Chelsea e da quello del Conte Cadogan, Visconte di Chelsea e presidente del club.

Se i cambiamenti nella simbologia sono importanti, duraturi e connotano un club, altrettanto decisivi per la storia sono i successi sul campo, e nei suoi primi 50 anni il Chelsea aveva raccolto zero trofei. Drake fu decisivo anche in quest’ambito. Nel 1954/55, a sorpresa, il Chelsea vinse il titolo, con una squadra, nuovamente ironia della sorte, priva di grandi stelle, fatta eccezione forse per il nazionale Ron Bentley. E sebbene quest’aspetto, l’aver vinto senza grandissime stelle in campo, sia decisamente romantico, fu anche la ragione per quale quel successo fu isolato: l’anno dopo il Chelsea concluse al sedicesimo posto la sua stagione da campione in carica, aggravata dal non aver potuto partecipare alla prima edizione della Coppa dei Campioni su parere negativo della Football Association, forse turbata ancora dalla vicenda-Wolves (anche se ufficialmente venne detto al Chelsea di concentrarsi sulle competizioni nazionali, e lo snobbare il Continente è tipico dei britannici). Drake venne licenziato a Settembre del 1961, dopo aver lanciato in prima squadra quattro anni prima un giovane, prodotto di quell’academy voluta da Birrell, rispondente al nome di Jimmy Greaves (124 i suoi goals in campionato con la maglia del Chelsea), che tuttavia in quella stessa estate del ’61 venne ceduto al Milan. Il posto di manager venne preso da Tommy Docherty.

Il Pensioner, primo simbolo del club

Gli anni ’60 erano gli anni della ribellione giovanile, dei Beatles e, ed è la cosa che ci riguarda, della Swingin’ London. E la Swingin’ London era, nel calcio, il Chelsea, non tanto per i risultati sul campo, nuovamente deludenti o quantomeno lontani dalle ambizione, quanto per l’attrazione che esercitava su alcune star di quel momento, che facevano la fila per presenziare alle partite a Stamford Bridge e che resero il Chelsea la squadra più glamour del periodo, anche per il suo gioco attraente. Partite con 80.000 spettatori, calcio divertente, il marchio fashion appiccicatogli addosso e due soli trofei in bacheca (la squadra del ’55 vinse anche la Charity Shield): i paradossi del calcio. Docherty subentrò in una situazione disperata, con la squadra destinata a una retrocessione che infatti non venne evitata, ma che servì al manager per costruire le basi per il futuro; l’immediata promozione in Division One fu la prima pietra su cui costruire. Docherty lavorò soprattutto sul ringiovanimento della squadra, cedendo i giocatori più attempati e attingendo a larghe mani al vivaio. Ron “Chopper” Harris (recordman di presenze), il portiere Peter Bonetti, l’ala Bobby Tambling (202 goals totali, record), John Hollins, Ken Shellito, Barry Bridges, Bert Murray il capitano Terry Venables erano tutti prodotti dell’academy e tutti membri di quel Chelsea “of the sixities” che sfiorò nel decennio solamente i trofei più importanti (diverse volte coinvolti nella title race, due semifinali di FA Cup e una finale, semifinale di Coppa delle Fiere), mettendo in bacheca solamente la Coppa di Lega del 1965.

Lo stemma, dagli anni ’50 a metà anni ’80

Nel frattempo nel 1966 un altro prodotto del vivaio venne aggregato alla prima squadra: Peter Osgood. Con il “re di Stamford Bridge” al centro dell’attacco, il Chelsea centrò nuovamente, dopo anni, la finale di FA Cup (1967), la prima tutta londinese (Cockney Cup Final), contro il Tottenham, persa però dagli uomini di Docherty. La stagione precedente Osgood rimase invece gravemente infortunato con il Chelsea primo in classifica, costringendo il manager all’acquisto di Tony Hateley per 100.000 sterline, l’ennesimo buco nell’acqua costosissimo visto che l’attaccante non si adattò mai al gioco Blues. Digressione doverosa. Docherty venne licenziato all’inizio della stagione 1967/68, e, dopo la breve parentesi di Ron Stuart, fu sostituito dall’ex manager dell’Orient Dave Sexton. Sexton mantenne il nucleo creato da Docherty, aggiungendovi l’attaccante Ian Hutchinson e affidando le chiavi del centrocampo al ragazzo di casa Alan Hudson (nato a Chelsea). E finalmente, sebbene non arriverà nessun titolo in campionato, venne messa in bacheca la FA Cup, vinta nella finale del 1970 contro il Leeds United, a cui fece seguito la Coppa delle Coppe del 1971 vinta contro il Real Madrid (e dopo aver eliminato i detentori del Manchester City). Gli anni ’70 cominciarono dunque alla grande, con un bis di successi a cui fece seguito, nel 1972, la canzone “Blue is the colour“, con cui abbiamo aperto questo post e uno degli inni più famosi del calcio inglese, cantata dagli stessi membri della squadra. Tutto sembrava mettersi per il verso giusto, e tutto faceva presagire un decennio di successi.

Invece, la Coppa delle Coppe fu l’ultimo trofeo vinto dal Chelsea, che per vincerne un altro dovrà aspettare la metà degli anni ’90. La squadra cominciò a disgregarsi, anche per problemi fuori dal campo che portarono Sexton a escludere, tra gli altri, lo stesso Osgood, che nel 1974 lasciò il club in direzione Southampton; lo stesso anno anche Sexton venne esonerato dal Chelsea, che al termine della stagione, con nuovamente alla guida Ron Stuart, retrocedette in seconda divisione. I guai non riguardavano solamente l’aspetto calcistico, ma anche quello economico, con le casse del club svuotate dalla costruzione dell’East Stand (nell’ambito di un ambizioso progetto che avrebbe dovuto portare la capienza a 60.000), situazione che peggiorerà negli anni successivi. Sul campo, Eddie McCreadie, ex giocatore, subentrò a Stuart e, alla seconda stagione in Division Two, riuscì a ottenere la promozione, salvo litigare con il proprietario Brian Mears e lasciare il club sbattendo la porta. Iniziò un periodo convulso della storia del Chelsea anche sotto il profilo dei manager, con continui avvicendamenti in panchina. A McCreadie fece seguito Ken Shellito, anch’egli ex giocatore del club, che mantenne il Chelsea in First Division nel 1977/78, salvo essere allontanato la stagione seguente e sostituito dalla leggenda Spurs Danny Blanchflower, che non riuscì a evitare la retrocessione. Le stagioni 1979/80 e 1980/81 videro alla guida della squadra Geoff Hurst, l’eroe dei Mondiali del 1966, che tuttavia non riuscì a riportare il Chelsea in Division One. Nel 1981 Mears mise in vendita la squadra “di famiglia”, che nel 1982 passò a Ken Bates, ex proprietario dell’Oldham.

The King of Stamford Bridge

Il cambio di proprietà non coincise con un miglioramento dei risultati, anzi, nella stagione 1982/83 il Chelsea rischiò addirittura la retrocessione in Division Three. Sul piano finanziario, i problemi continuavano, aggravati dal fatto che, dopo lo scorporamento avvenuto durante la crisi economica degli anni ’70, Stamford Bridge apparteneva a una holding diversa rispetto al club, e la società proprietaria dello stadio era rimasta in mano alla famiglia Mears. Comincerà una lunga battaglia, risolta solamente nel 1997, durante la quale lo spettro di un definitivo allontanamento da Stamford Bridge aleggiò sul Chelsea, visto che l’impianto, ceduto da Mears a una ditta edile, fu in procinto di essere abbattuto per costruirvi un complesso abitativo (si ventilò la possibilità per il Chelsea di andare a giocare a Selhurst Park). Sul campo, con John Neal alla guida, il Chelsea riuscì, nel 1983/84, a riconquistare la massima serie; in attacco primeggiava Kerry Dixon, che giocherà più di 300 partite con la squadra segnando 147 goals. Il ritorno in Division One coincise con alcune stagioni caratterizzate da ottimi risultati, addirittura il Chelsea si trovò in lotta per il titolo, salvo clamorosamente retrocedere nel 1987/88: il manager, John Hollins (che subentrò a Neal quando questi si ritirò), peggiorò i suoi rapporti con alcuni giocatori chiave (David Speedie e Nigel Spackman su tutti), che vennero ceduti, e il sostituto Bobby Campbell non riuscì a evitare l’inevitabile.

Apriamo una breve parentesi sul tifo. Abbiamo elogiato indirettamente le grandi folle che accorrevano a Stamford Bridge, rimarcando il fatto che il Chelsea è da sempre un club conn molto seguito. Tuttavia il “molto seguito” coincise negli anni ’70 con la larga presenza tra le fila dei tifosi Blues di elementi hooligan, tra i quali i famosi Chelsea Headhunters, una delle più temibili firm di quegli anni. Chiusa parentesi, ritorniamo al campo, con l’immediata promozione, trionfalisticamente ottenuta con 99 punti, ben 17 di vantaggio sulla seconda. Cominciarono così gli anni ’90, con il Chelsea di Campbell sorprendentemente quinto in First Division, il quale venne in seguito promosso general manager. Ian Porterfield e Glenn Hoddle furono i due manager che precedettero il nuovo periodo di gloria del Chelsea, che iniziò con l’FA Cup del 1997 (contro il Middlesbrough) vinta con Ruud Gullit in panchina. Gullit era arrivato al Chelsea come giocatore quando, con Stamford Bridge al sicuro, Bates (e Matthew Harding, ricco direttore delle finanze che morirà tragicamente poco dopo) mise a disposizione maggiori fondi per acquistare nuovi giocatori. Fondi che servirono all’olandese ad acquistare Gianluca Vialli, Frank Leboeuf, Roberto di Matteo e soprattutto “Magic Box“, Gianfranco Zola, insieme a Osgood uno dei giocatori più amati dai tifosi del Chelsea. Gullit venne licenziato nel corso della stagione 1997/98, sostituito da Gianluca Vialli nelle vesti anch’egli di player/manager: l’ex attaccante di Sampdoria e Juventus condusse il Chelsea a tre trofei nel giro di pochi mesi, con la Coppa di Lega (sempre 2-0, sempre contro il Middlesbrough), la Coppa delle Coppe (1-0 contro lo Stoccarda, goal di Zola) e la Supercoppa Europea (1-0 al Real Madrid). L’ultimo successo di Vialli fu l’FA Cup del 2000, contro l’Aston Villa; ma nel frattempo il Chelsea aveva anche fatto l’esordio in Coppa dei Campioni (ora Champions League), con l’eliminazione nei quarti contro il Barcellona.

Lo strepitoso goal di Zola contro il Norwich City

Il Chelsea “italiano” continuò con Claudio Ranieri, sebbene il manager romano non riuscì a ripetere i successi del predecessore, con la macchia della semifinale di Champions persa contro il Monaco, squadra decisamente inferiore al Chelsea come forza e forse aiutata da alcune bizzarre decisioni tattiche di Ranieri. Nel frattempo, il milionario russo Roman Abramovich rilevò il club da Bates, aprendo con il suo avvento la nuova e tuttora in corso serie vincente del Chelsea. Licenziato Ranieri, le chiavi della squadra vennero affidate dal magnate russo a Josè Mourinho, fresco vincitore della Champions con il Porto; la storia del manager portoghese a Stamford Bridge la conosciamo: due titoli, due Coppa di Lega, una FA Cup, mentre la Champions, vero obbiettivo di Abramovich (che ha rinforzato negli anni una squadra che vedeva già tra le sue fila John Terry e Frank Lampard con numerosi fuoriclasse, tra tutti Didier Drogba, Arjen Robben, Petr Cech, Ashley Cole, Ricardo Carvalho, Hernan Crespo, Andriy Shevchenko, Fernando Torres etc.) continuò a sfuggire, anche quando la squadra orfana dello “Special One” portoghese raggiunse la finale (con Avram Grant in panchina) del 2008, persa ai rigori contro il Manchester United; o quando la stagione successiva una controversa semifinale contro il Barcellona sancì l’eliminazione degli uomini di Guus Hiddink (subentrato a Felipe Scolari e vincitore di una FA Cup). Dopo averci provato con un altro italiano, Ancelotti, vincitore di un campionato e una FA Cup, quest’anno è finalmente arrivato l’agognato successo europeo, piuttosto inaspettato e con una squadra che, con Villas-Boas in panchina, sembrava cotta. In panchina, neanche a dirlo, un italiano, l’ex Roberto di Matteo, che nella finale di Monaco di Baviera ha visto i suoi uomini trionfare ai rigori contro i padroni di casa (e va ricordata anche l’estenuante semifinale contro il Barcellona) e che ha messo in bacheca anche una FA Cup.

Concludiamo così la storia del Chelsea, i campioni d’Europa in carica, la prima squadra londinese ad aver alzato la coppa più prestigiosa. Una squadra caratterizzata da sempre da un’aurea di fascino, una squadra storicamente attraente per il suo gioco, per i suoi campioni, per le icone come Peter Osgood, per lo stadio, dopo la ristrutturazione un gioiello nel cuore chic della capitale, e il solo pensierio che il Chelsea possa abbandonarlo ci mette i brividi visto che la squadra stessa è nata in funzione dello stadio. Ma allo stesso tempo una squadra che ha raccolto, salvo gli ultimi anni, meno di quanto seminato; che ha attraversato momenti difficili, economicamente, sugli spalti, sul campo (è stata, tra le “grandi” attuali, l’ultima ad aver giocato in seconda divisione). E lasciando Chelsea, lasciando Fulham, ci dirigiamo verso…un po’ nord, un po’ est, un po’ sud, visto che dedicheremo l’ultimo post a Barnet, Dagenham & Redbridge e AFC Wimbledon. Il nostro viaggio è quasi terminato, ma prima ci fermiamo davanti alla West Stand, dove la statua di Peter Osgood sorveglia la sua casa; e, con tutto il rispetto per Mourinho, Drogba etc., il Chelsea per noi, amanti del calcio che fu, rimane lui. Born is the king of Stamford Bridge

Leggende: Terry e Lampard (e Cole) con la Champions League

Records

  • Vittoria più larga: 9-1 v Worksop Town (FA Cup, 11 Gennaio 1908)
  • Sconfitta più larga: 1-8 v Wolverhampton Wanderers (Division One, 26 Settembre 1953)
  • Maggior numero di spettatori: 82.905 v Arsenal (Division One, 12 Ottobre 1935)
  • Maggior numero di presenze in campionato: Ron Harris, 655
  • Maggior numero di reti in campionato: Bobby Tambling, 164

Trofei

  • Division One/Premier League: 1954/55, 2004/05, 2005/06, 2009/10
  • F.A. Cup: 1970, 1997, 2000, 2007, 2009, 2010, 2012
  • League Cup: 1965, 1998, 2005, 2007
  • Charity/Community Shield: 1955, 2000, 2005, 2009
  • Champions League: 2011/12
  • Coppa delle Coppe: 1970/71, 1997/98
  • Supercoppa Europea: 1998

Rivali: Fulham, Arsenal, Tottenham

Link: Chelsea Italia

Le più belle maglie della Premier: le nuove maglie, il Chelsea

Eccci tornati con la rubrica che tratta delle nuove maglie che sono state presentate finora dalle squadre della Premier League. Oggi parleremo delle jersey Home & Away del Chelsea, firmate, come ormai da molti anni, dalla tedesca Adidas.

Come si può vedere dalla foto, il completo home è stato rivoluzionato rispetto all’anno scorso. Sparisce la fascia bianca sulle maniche e sui pantaloncini sulle quali erano poi presenti le tipiche tre strisce Adidas, blu come la maglia. In questa nuova versione per le prossime Premier League e Champions League, l’azienda tedesca ha deciso di seguire ciò che aveva già fatto l’anno scorso per Real Madrid ed in parte per il Milan. Si passa quindi all’oro per i dettagli. Molto belle le tre strisce sulle spalle e sui pantaloncini, così come lo stile generale della maglia che presenta delle ulteriori strisce trasversali nella trama sul davanti. Diventa dorato anche lo sfondo del logo, e questa scelta non trova molto d’accordo noi integralisti delle maglie. I numeri sui pantaloncini restano bianchi e così probabilmente pure quelli sul retro della maglia. Bianchi anche i calzettoni, con la parte superiore blu con le tre strisce bianche.

Per quanto riguarda il kit away, la maglia ricorda molto quella del River Plate. Presenta infatti una striscia trasversale celeste che parte dalla spalla sinistra e termina sulla parte destra della vita. L’Adidas ha svilupparo inoltre un collo a v blu scuro, con le tre tipiche strisce che partono dal collo e arrivano a fine manica. Come si vede dall’immagine, al collo le strisce sono di colore blu, scendendo verso i polsi diventa celeste per poi ritornare blu in corrispondenza della fine delle maniche, nella maglia a maniche lunghe. Presenti inoltre anche polsini blu dello stesso colore del collo. In questo kit il logo ritorna ad essere del colore abituale, i pantaloncini sono bianchi con strisce blu laterali, e i calzettoni blu scuro con riche bianche sul risvolto superiore.

In generale molto buone le maglie della squadra londinese per la prossima stagione, con l’unico aspetto negativo che viene dal cambiamento del colore del logo della prima maglia.

Filippo Lorenzo Collalti

Bloggers on the road: Cris e Pierpaolo a Londra (seconda parte)

Ultimo capitolo del nostro viaggio a Londra, che dopo gli eventi di Tottenham – Bolton e una salutare notte di riposo ci porta dritti dritti alla domenica, pronti per un’altra giornata all’insegna del puro e semplice calcio inglese. Il programma prevede un altro quarto di finale di FA Cup, Chelsea-Leicester, per il quale dobbiamo solamente ritirare i biglietti allo stadio. La partita però è alle 14, abbiamo quindi una bella domenica mattina di sole da spendere per Londra e come decidiamo di farlo? Essendo in zona Hammersmith, siamo vicinissimi a ben tre stadi londinesi: Stamford Bridge, dove andremo nel pomeriggio, Craven Cottage (da me già visitato qualche anno orsono e non mancherà un piccolo racconto a riguardo in futuro) e Loftus Road. Una veloce occhiata alla cartina e ci muoviamo verso Loftus Road, il più vicino dei tre al nostro albergo. Sappiamo che sarà tutto chiuso, è domenica mattina presto e Londra prima delle 11 non si alza, ma decidiamo comunque di farci la passeggiata che dalla fermata della metro, lungo South Africa Road, porta allo stadio. Il quartiere è davvero caratteristico, dominato dagli studi della BBC, ed è un tipico quartiere residenziale. Fa davvero strano essere immersi in tale tranquillità a pochi chilometri dal caos del centro di Londra, ma ce la godiamo tutta: per strada c’è davvero poca gente, il sole splende e dal nulla arriviamo all’ingresso ufficiale dello stadio, perfettamente inserito nel quartiere, roba impensabile qui da noi. Non che lo stadio sia in un quartiere, ma che ne sia parte integrante, è questa la cosa meravigliosa. La scuola dietro la gradinata, la zona residenziale a due passi, l’assenza di parcheggi antistanti…fantastico! Purtroppo non posso dirvi di più perchè l’impianto è totalmente chiuso, shop compreso, ed è davvero un peccato. Ci colpisce comunque una sorta di bacheca fuori dalla biglietteria, che avverte delle modalità di vendità dei biglietti e di come vi sia uno stretto sistema di monitoraggio delle vendite che qui da noi ci sogniamo. Facciamo le classiche foto di rito e decidiamo di muoverci verso il nostro obiettivo del giorno: Chelsea-Leicester.

South Africa Road e il Loftus Road sullo sfondo

Personalmente ero già stato a Stamford Bridge, ma solo per il tour dello stadio e ovviamente l’idea della partita live ha tutt’altro sapore. La strada è conosciuta ed è facilissima: District Line direzione Wimbledon, si scende a Fulham Broadway, si esce dalla stazione e si gira a sinistra: 300 metri e lo stadio ti compare davanti, anche qui perfettamente immerso nel quartiere.

Stamford Bridge in tutta la sua bellezza

La partita è abbastanza attesa da ambo le parti, con i tifosi del Chelsea ancora euforici per il passaggio del turno in Champion’s League e la prospettiva di andare a Wembley mentre da Leicester sono attesi 6 mila (sì, 6 mila!) tifosi per vivere un momento unico in una stagione abbastanza avara di soddisfazioni. Arriviamo con largo anticipo, la gente inizia a sciamare attorno allo stadio ed ovviamente il luogo più affollato è l’enorme megastore dove trovare qualsiasi cosa. Dopo lo shopping pazzo del giorno precedente, ci limitiamo a prendere l’essenziale, tra cui il programma della partita (non può mancare…se andate allo stadio in Inghilterra e non comprate il programma della partita non siete davvero degni di esserci andati) e ritiriamo, con estrema semplicità i nostri biglietti. Tranquilli, ci mettiamo a pranzare nella vicina stazione della metrò dove si possono trovare ogni sorta di ristoranti a buon mercato e finalmente entriamo in clima partita. Le macchine fotografiche scattano a ripetizione, la statua del King of Stamford Bridge domina la zona antistadio e iniziano a vedersi anche molti tifosi del Leicester perfettamente mischiati ai tifosi locali. Entriamo con discreto anticipo, rispetto a White Hart Lane qui è tutto più moderno: tornelli elettronici, larghi, comodi: è bello anche così, nonostante non si respiri il clima old style del giorno prima. Siamo in West Stand Lower Tier e come bambini andiamo subito a vedere i nostri posti: splendidi, assolutamente splendidi. Vicini al campo, praticamente centrali: visuale perfetta per godersi ogni singolo istante della partita.

Chelsea in campo per il riscaldamento

Essendo presto, è possibile comunque muoversi lungo tutta la stand e andiamo a posizionarci, in attesa del riscaldamento, sul muretto di bordocampo per foto e per goderci lo spettacolo dello stadio. Come da tradizione dentro lo stadio pochissima gente per il riscaldamento e quando entrano in campo i giocatori, li abbiamo a pochissima distanza. Cech si riscalda a due passi da noi, poi entrano tutti, arrivano sotto lo stand, salutano e si scaldano. Inizia a riempirsi il settore ospiti nel frattempo e inizia a salire anche il loro tifo: si preannuncia un’atmosfera meravigliosa. Una pinta prima della partita non si nega a nessuno e quindi ci rifugiamo dieci minuti nella zona bar (organizzatissima) per gustarcela, poi pronti alla gara.

Il settore ospiti...decisamente pieno!

Il colpo d’occhio è ottimo, ci sono alcune sezioni dello stadio poco popolate (la parte più alta), il settore ospiti è stracolmo ed anche dove siamo noi non c’è un seggiolino libero. Il tifo del Leicester è assordante, tutti hanno la loro sciarpa, tutti cantano; i tifosi del Chelsea rispondono dalla parte più animata della Matthew Harding Stand con un aiuto anche dal nostro settore. Escono le enormi flag che vedete ogni volta in tv che fanno il giro dello stadio, dagli altoparlanti parte il classico Liquidator con tutto lo stadio che applaude e canta a ritmo; poi tocca all’inno (davvero bello) del Chelsea ed alle formazioni, annunciate dallo speaker in campo…insomma, si è pronti all’inizio. L’ingresso in campo è qualcosa di unico: seconda versione del Liquidator dagli altoparlanti con pubblico decisamente più coinvolto di prima, tifosi del Leicester in totale delirio a formare un muro umano nella Shed End che accolgono con un boato terrificante i loro giocatori dopo i classici saluti di inizio gara: FA Cup magic! Prima della partita viene riservato un tributo a Fabrice Muamba, o, meglio, un enorme incoraggiamento che unisce idealmente spettatori e giocatori: toccante.

Il nostro Di Matteo

E finalmente…calcio d’inizio! Conoscete tutti il risultato finale, ma la partita è stata più aperta di quello che il punteggio lasci pensare. Nelle reazioni post-partita di Chelsea-Napoli si sentiva da più parti dire che i tifosi del Chelsea erano muti, zero atmosfera, ridicoli: durante tutta la gara col Leicester non sono stati zitti un attimo, sempre cori, sempre incitamenti con una predilezione particolare per Fernando Torres, letteralmente incoraggiato ad ogni tocco di palla e ad ogni accelerazione; lo stesso Torres, tra l’altro, era in versione ispirata ed inarrestabile, tanto che finalmente riesce ad interrompere il digiuno di gol e a far esplodere letteralmente lo stadio: l’esultanza al gol di Torres è un qualcosa che difficilmente dimenticherò, quasi come una liberazione per lui e per i tifosi. Dall’altro lato ci sono i tifosi del Leicester, per i quali è difficile usare degli aggettivi. Dal primo all’ultimo minuto hanno cantato, incitato e sostenuto la loro squadra, rumorosissimi ma sempre correttissimi. Il boato al gol del 3-1 sembrava quello di un gol vincente al 90esimo in una sfida importantissima. Guardavo le facce accanto alle mie ed erano tutti estasiati nel vedere questo muro umano esultare ed essere felice per un semplice gol del 3-1; al secondo gol del Leicester, quello del 4-2, si sono levati anche applausi dai settori locali per la bellezza del gol. I tifosi del Chelsea festeggiavano cantando il celeberrimo “Que sera sera”, quelli del Leicester continuavano ad incitare la loro squadra: davvero, non so descrivervi a parole la bellezza di trovarsi dentro Stamford Bridge. La vedo come la magia del calcio, dalla tristezza del giorno precedente alla meraviglia odierna passando l’intera gamma delle emozioni umane.

Man of the match...Fernando Torres

Al fischio finale usciamo ordinatamente, il deflusso è regolare ma commettiamo un piccolo errore: andiamo alla metro dal lato da dove eravamo venuti, ignorando che dopo le partite lì è chiuso e c’è un’entrata apposita. Ne aprofittiamo comunque per sistemarci un attimo, ma appena usciamo veniamo presi dallo sconforto: la coda per il Tube, che prima era inesistente, ora è decisamente consistente. Ci mettiamo in fila, un po’ rassegnati, ma ignari che quella coda ci avrebbe cambiato totalmente la giornata. Ci accorgiamo infatti di essere in mezzo a tifosi Chelsea e Leicester assieme, con stragrande maggioranza dei tifosi ospiti appena usciti. I tifosi del Chelsea celebrano la vittoria, quelli del Leicester rispondono incitando la loro squadra…il tutto in totale spontaneità e tranquillità. La coda scorre via veloce veloce ed entriamo in stazione: c’è pieno, siamo un po’ pressati, ma qui scatta il delirio totale sotto forma di tifo: i tifosi Leicester iniziano a cantare seriamente ed in un attimo tutta la stazione è coinvolta. Una bolgia come direbbe un famoso telecronista italiano, bellissimo diciamo noi. Ci sono anche tifosi del Chelsea che provano a farsi sentire, ma vengono surclassati: cantano, saltano, urlano, ci si diverte. Il primo treno che arriva, mentre si riempie, viene usato come un tamburo per accentuare i cori; fortunatamente la parte più calda del tifo è troppo lontana per entrare e salirà sul treno successivo, assieme a noi. Dentro il treno è un qualcosa di pazzesco: tutta la carrozza salta all’unisono e si susseguono i cori più svariati, dagli sfottò al Nottingham (acerrimi rivali del Leicester), a quelli del Chelsea (memorabile la frase di un tifoso che urla: i tifosi del Chelsea che vengono da Manchester devono scendere qui per tornare a casa), agli incitamenti al Leicester. Un viaggio unico, indimenticabile. In metro restiamo affascinati da un quadretto familiare accanto a me: papà, mamma e i due figli tutti rigorosamente con la maglia del Leicester che tornano a casa dopo essersi goduti la partita. Colpiscono soprattutto la mamma e la figlia, che avrà avuto sui 12-13 anni con la sua maglietta ufficiale della squadra e l’entusiasmo per essere stata presente che traspare dagli occhi, pur nella sconfitta. Sono stato parecchio tentato dal chiedere mille cose al capofamiglia, complimentarmi per la loro passione e per lo splendido seguito di tifosi della loro squadra, ma mi sono trattenuto…un po’ per timidezza, un po’ per non rovinare il quadro familiare e quell’atmosfera fantastica che si era creata su quel vagone della metro, un ricordo che resterà per sempre nel mio cuore e credo anche in quelli dei miei compagni di viaggio. Pian piano il treno si svuota e noi torniamo ad essere dei semplici turisti londinesi completando il tour dei luoghi più simbolici della città. Cena veloce, giretto in centro, Match of the day 2 in tv ed è tempo di sistemare i bagagli perchè il giorno dopo si rientra a casa, con un’altra meravigliosa esperienza di calcio inglese nel cuore e la speranza di riuscire a farne un’altra appena possibile.

Come nasce un amore, cronaca di una passione in Blue

Come nasce un amore? Come si diventa schiavi di una passione tanto grande quanto difficilmente comprensibile da chi non la vive?

Difficile da dire, difficile da capire, quasi impossibile da spiegare.

Eppure tutti noi viviamo di passioni, più o meno razionali. Di certo, nella categoria delle meno razionali, rientrano le passioni legate al calcio. E ancora meno razionale, se possibile, è la passione che ci lega ad alcune squadre di altri paesi, squadre magari viste solo in televisione, di cui ci si innamora apparentemente (per gli altri) senza alcun motivo. Ma sappiamo tutti che i motivi ci sono, sono reali, sono profondi e importanti, anche se agli occhi di qualcuno possiamo sembrare strani, o addirittura pazzi.

E quello che vi voglio raccontare oggi è una passione sconfinata per un Paese, un campionato, una città ed una squadra. Il Paese, come credo abbiate capito, è l’Inghilterra, il campionato è la Premier League, la città è Londra e la squadra, a differenza di chi di solito scrive di qui, non è il Tottenham, bensì il Chelsea. Vi voglio raccontare di questa passione perché forse spingerà alcuni tifosi, come è successo a me nell’ultimo periodo, a guardare con occhi diversi il campionato italiano, le polemiche arbitrali, i veleni. Spero che aiuterà qualcuno ad allontanarsi da tutto ciò che non fa bene al movimento calcio e a vedere quanto può essere bello uno sport sano, giocato senza esasperare rivalità inutilmente, con stadi sempre pieni e con una cornice di pubblico fantastica.

Voglio parlarvi di un amore con una città nato presto, molto presto. La mia prima visita a Londra, complice un nonno con una casa lì, è stata quando avevo appena pochi mesi. Da allora ce ne sono state tante, almeno a l’anno, e ad oggi si potrebbero quantificare in una trentina più o meno. Andando avanti in me cresceva la passione per la Lazio, e per il suo stile un po’ inglese. Anche questo era retaggio del nonno, che mi portava allo stadio fin da quando era piccolo. E proprio dal nonno viene l’amore per quella squadra di Londra. Tutti lo sappiamo, la città e grande, e ci sono più squadre di quante se ne possano ricordare. Ma la sua scelta, e quindi di seguito la mia, è caduta sui blues, una squadra che per tanti anni è stata avara di successi in patria, che per tanti anni sembrava l’eterna incompiuta, che era finita addirittura in seconda divisione. La squadra piano piano cominciò a risalire la china, cominciò ad avere tra le sue fila diversi campioni, anche italiani, come Zola, Vialli di Matteo, ricominciò a divertire, vincendo anche FA cup, Coppa di Lega e Coppa delle Coppe. In quel periodo, sei o sette anni prima dell’avvento del ricchissimo Roman Abramovič, anche io, come mio nonno cominciai ad avvicinarmi a questo club ricco di storia.

Che dire, i Blues sono unici, quando giocano te ne accorgi in città, vedi ovunque una sciarpa blu, una maglia di Drogba, ogni tanto qualcuno con una bellissima maglietta della Umbro con “ZOLA” sulle spalle. Dietro ogni angolo potresti sentire cantare “Blue is the colour”. Dovunque tu sia ti puoi sentire parte integrante di un tifo “sano”, “vero” e “verace”. Se anche non sei tifoso, se non stai andando allo stadio, basta finire in mezzo a quei capannelli di tifosi, anche per caso, per provare quelle emozioni che sono proprie del tifare la squadra del cuore, dello stare allo stadio e del vivere la propria passione, quando in realtà a volte non sei neanche vicino ad un impianto e magari non sai neanche che ci sia una partita.

E se vi racconto tutto questo è perché io lo vivo quotidianamente. Sia quando sono a Londra che quando sono a Roma, se gioca il Chelsea è come se giocasse la mia Lazio. Non sono mai riuscito, a differenza di mio nonno, ad andare a vedere i Blues allo stadio. Di sicuro è sul taccuino delle cose da fare, voglio finalmente trovarmi di fronte ad un modo diverso di vivere lo stadio, voglio trovarmi a 2 metri dal campo senza controlli assurdi e perquisizioni inutili, voglio respirare le atmosfere di un calcio diverso dal solito calcio avvelenato nostrano. E se ognuno dei nostri tifosi potesse andare a vedere una sola partita, se ognuno potesse vedere i tifosi entrare ed uscire ordinatamente, le due tifoserie (quasi) sempre rispettose, a volte anche i tifosi delle due squadre che bevono birra nello stesso pub pacificamente, forse riusciremmo ad arrivare ad un calcio migliore, ad un tifo migliore, senza l’uso della violenza che ha caratterizzato il cambiamento culturale anglosassone.

La prima parte di stagione del Chelsea

“Siamo in gioco in tutte e tre le competizioni (F.A. Cup, Premier League e Champions League), addirittura in campionato abbiamo qualche punto in più dell’anno scorso”.  Queste erano le parole del vice allenatore Roberto Di Matteo alla vigilia del match di F.A. Cup contro il Portsmouth (vinto dai Blues con un tondo 4-0). Una visione molto ottimistica: in Premier la posizione occupata è la quarta, con ben undici punti di ritardo rispetto alla capolista City e otto nei confronti del Tottenham e dello United. Senza scordare le inseguitrici (essendo il quarto l’ultimo posto per la Champions league), con l’Arsenal indietro di solo un punto. In Champions League i Blues hanno conquistato la prima posizione nel girone E (formato da Valencia, Genk e Bayer Leverkusen), ma non senza fatica: il passaggio del turno è stato in dubbio fino all’ultimo turno, conquistato nella vittoria decisiva contro il Valencia, uno dei pochi incontri della stagione in cui il Chelsea abbia veramente convinto. Il sorteggio degli ottavi ha abbinato la squadra di Stamford Bridge con il Napoli, con la prima gara da giocare al San Paolo. Un sorteggio non positivo per il Chelsea, che viene accoppiata con una delle seconde classificate più forti, rendendo difficoltoso il passaggio ai quarti. Insomma la situazione non è delle migliori, un ritardo importante in Premier League e un ottavo difficile in Champions preoccupano un po tutti, soprattutto il proprietario Roman Abramovich. E pensare che l’entusiasmo ad inizio stagione era grandissimo, con l’approdo sulla panchina di Andres Villas-Boas (fortemente voluto da Roman, che ha dovuto pagare 15 milioni di euro circa per liberare il tecnico), reduce da una stagione vincente con il Porto (Europa League, Campionato e Coppa di Portogallo) e l’acquisto di Juan Mata e Lukaku.

Andres Villas-Boas, alle prese con una stagione difficile

I primi dubbi sono emersi dopo una decina di partite: gli incontri vinti raramente sono accompagnati da prestazioni convincenti, e anzi, si ha l’impressione che un errore difensivo possa essere commesso da un momento all’altro. E proprio questo il più grande problema dei Blues: la difesa, che negli ultimi anni era stato il punto di forza della squadra londinese, viene trafitta troppe volte, spesso per via di errori banali (basti pensare allo scellerato retropassaggio di Malouda nel match contro i Gunners). Eppure il reparto è composto da elementi validi: John Terry e David Luiz, entrambi difensori di livello mondiale, sono i due centrali titolari, Cole e Bosingwa (spesso alternato con Ivanovic) i due terzini. E i punti buttati dal Chelsea cominciano a fare la differenza: partite in cui il pallino del gioco è in mano ai Blues, finiscono per essere pareggiate (se non perse) per disattenzioni e decisioni sbagliate dal reparto difensivo. Meno problematico è il centrocampo, con elementi giovani (Romeu, Obi Mikel, Ramires e Mata) affiancati da giocatori più esperti (Meireles, Lampard). Un centrocampo che fa della fisicità il suo punto di forza, avendo a disposizione giocatore con spiccate doti fisiche. Di contro c’è un tasso tecnico inferiore rispetto alle altre squadre di vertice: sotto questo aspetto Lampard e Mata (sempre più usato come attaccante) sono gli unici a fare la differenza tecnicamente, e spesso il gioco ne risente essendo costretti a manovre più “semplici”. L’attacco è l’altro grande problema del Chelsea: molti dei gol provengono su invenzioni di Mata , calci piazzati o accelerazioni di Sturridge. Un attacco troppo dipendente dai singoli e molto prevedibile: Villas-Boas ha più volte cambiato le carte in tavola, passando da una sola punta, a due (Drogba e Torres in prove di coesistenza sul campo) ed infine l’attuale attacco a 3, con Drogba centrale e Mata e Sturridge larghi.

Daniel Sturridge, capocannoniere dei Blues

Quest’ultimo è una delle poche note positive del Chelsea fin’ora: tornato dal prestito al Bolton, finora ha realizzato ben 9 gol e mostrando grandissimi miglioramenti, guadagnandosi anche la chiamata di Fabio Capello. Male invece Torres: il ragazzo non riesce a decollare, e ultimamente è panchinato a favore di Drogba. Ricapitolando, non è più il Chelsea che subiva pochissimi gol e ne segnava tantissimi, ma una squadra in via di costruzione, che ancora non ha trovato una sua identità dentro e fuori dal campo. Villas-Boas infatti non è riuscito a creare una affinità con i giocatori (cosa che era riuscita a Carlo Ancelotti) e anzi, le liti con i senatori sono state frequenti, con il risultato l’allontanamento di Anelka dalla squadra (ora in Cina). In campo i problemi per il tecnico sono stati soprattutto tattici: varie le formazioni utilizzate (4-4-2, 4-3-3, 4-3-2-1), ma nessuna ha convinto a pieno. Le colpe ovviamente non sono solo del tecnico, ma anche della società che negli ultimi anni ha fatto sempre un mercato “casuale”, senza seguire uno schema o un progetto. E quello che un tifoso Blues si augura, è proprio questo: lasciar lavorar serenamente Villas-Boas e operare sul mercato coinvolgendolo, comprando giocatori che rientrino nei piani del portoghese. Solo allora potremmo valutare il suo operato, sperando che sia una valutazione positiva.