Dixie

Ci sono giocatori che legano il loro nome indissolubilmente a quello di un club.
Magari oggi un po’ meno, ma qualche caso lo troviamo ancora. John Terry, Ryan Giggs (o Scholes o Neville), Steven Gerrard, ad esempio.
O Alan Shearer, che seppur non abbia giocato sempre nel Newcastle, è associabile ai Magpies più che al Blackburn, con cui però avrebbe vinto un titolo irripetibile.
Andando indietro nel tempo, i casi si sprecano. E figurarsi se spostiamo le lancette del nostro orologio indietro non solo di anni, ma di decenni. Per ogni squadra ci sono almeno due nomi di leggende. Calciatori che hanno regalato gioie ai tifosi, che hanno sudato e lottato per una maglia. E che magari si sono meritati una statua, onore riservato a pochi, grandi immortali.
Questa storia parla di uno di loro.
Parla di un eroe romantico, pulito ed elegante, che in un giorno di marzo muore tra le braccia della sua sposa, senza più la sua gamba destra, quella che lo rese ciò che era.
Se i trovatori esistessero ancora, canterebbero le avventure dei calciatori, i cavalieri di oggi. Su di lui, però, avrebbero composto la moderna Chanson de Roland.
Siamo a Birkenhead, città situata sulla sponda opposta del fiume Mersey rispetto a Liverpool. 313 di Laird Street, una delle vie principali della città. 22 Gennaio 1907, la data in cui vide la luce del Mondo per la prima volta.
Proprio per la scuola locale, la Laird Street School, questo ragazzotto, nipote di un ferroviere, iniziò a giocare a calcio.
Un’idea meravigliosa, specie nel Merseyside, che ha da sempre un rapporto privilegiato con the beautiful game. Un’idea meravigliosa, poi, se sei uno che al pallone dà del tu, senza timori reverenziali.
Il calcio, peraltro, piaceva anche a suo padre, William Sr., e in particolare gli garbava una squadra: l’Everton Football Club. Nel 1915, William Sr. portò suo figlio, per la prima volta, a Goodison Park. Aveva 8 anni, e quell’Everton si sarebbe apprestato, da lì a poco, a vincere il titolo.
Questa storia dell’Everton, di cui ovviamente il ragazzo si innamorò, tornerà utile più tardi.
Per il momento restiamo a Birkenhead, con le sue case basse e di mattoni rossi.
Come detto, il ragazzo sviluppò un rapporto d’amore con la palla da calcio. Talento innato. Un giorno lo notano gli scout del Tranmere Rovers, la squadra locale. A 16 anni, con la benedizione dei genitori, entra a far parte del club.
Prenton Park non era esattamente Wembley, che aprì i battenti lo stesso anno in cui il ragazzo firmò per i Rovers, il 1923. Una delle stand, ancora oggi, si chiama the Cowshed. La stalla.
Ma il nostro, nonostante tutto, si seppe ritagliare il suo spazio di gloria anche da questo palcoscenico di periferia. Per forza, segnava a raffica ed era poco più che un adolescente! 27 goal in 30 partite recitano gli annali, tutti concentrati nella seconda stagione. Media: un goal a partita (la prima vide 3 presenze e zero reti).
Rimase al Tranmere due sole stagioni, perchè poi il destino gli aveva affidato un altro compito: scrivere la storia dell’Everton.
Molti club chiesero informazioni. Arsenal, Newcastle, tutti con un grande svantaggio: non essere l’Everton. Perchè quando il segretario-manager dei Toffees, Mr. McIntosh, chiese di vedere Dixie, lui per la gioia corse 4 kilometri che lo separavano dal luogo dell’incontro.
Già, Dixie. Lui per la verità non ha mai amato questo soprannome, preferiva Bill, diminutivo di William.
Però al Tranmere qualcuno pensò che questo ragazzo del Merseyside assomigliasse, per tratti somatici, ad uno del Sud degli States. E uno del sud degli States è, per forza, “Dixie”, perchè abitante al di sotto della linea Mason-Dixon. Appunto.
Torniamo ai fatti, perchè qui svoltò la carriera. Per 3.000 sterline, Dixie passò all’Everton. Un accordo in essere col Tranmere presupponeva che il 10% della cifra sarebbe spettato a lui. Ma invece che 300 pounds, se ne vide recapitare solo 30. Chiamò il suo manager, Bert Cooke, e gli disse: “e il resto?”. “Senti, Bill, è il massimo che la lega ci permette di darti”. Furioso, si rivolse allora a John McKenna, presidente della Football Association. Che per tutta risposta gli comunicò, laconico: “mi dispiace che tu abbia firmato, e questo è quanto”.
Avidità? Per nulla. Quelle 30 sterline Bill le diede in consegna ai genitori, che a loro volta le donarono all’ospedale di Birkenhead.
L’Everton, l’amato Everton, e qui, a Goodison Park, Dixie scriverà la leggenda dei Toffees e del calcio inglese.
Arrivò a campionato in corso, in tempo per segnare 2 reti in 7 partite. La prima stagione completa fu il 1925/26: 32 centri in 38 incontri. E poi a seguire 21 reti in 27 partite. Fino al 1927/28.
Qui bisogna fermarsi. Perchè quella fu la più grande stagione che un attaccante inglese abbia mai giocato. Un numero di goals che è persino imbarazzante da scrivere: SESSANTA. Sei-zero. L’Everton, ovviamente, vinse il titolo, il terzo della sua storia, e Bill, da Birkenhead, a 21 anni divenne semplicemente the greatest goal-scorer of England. Il più grande e il più famoso attaccante d’Albione.
Segnava in tutti i modi, specialmente di testa, ma non per questo rispecchiava per forza i canoni del tipico centravanti inglese. Anzi. Eddie Hapgood, terzino dell’Arsenal, lo descrisse così: “un mago con la sfera ai piedi, ma letale di testa, forte come un toro, era impossibile togliergli palla, giocava in modo pulito, era un grande sportivo ed uno che non si dava mai per vinto. Era anche uno duro e tosto, non solo perché era grande e grosso, ma perché amava spesso allargarsi sulle fasce, portandosi dietro il centro-mediano e, assai di frequente, riusciva a saltarlo, complicando assai le cose per la difesa.” Oggi diremmo “un attaccante completo”.
Nella stagione post-record segnò 26 volte, 23 in quella successiva. Due stagioni, queste, costellate di piccoli problemi che gli fecero saltare diversi match. Forse anche per questo successe quel che successe in quel maledetto 1929/30.
Senza avversità, non sarebbe la romantica storia, la chanson de geste che tanto abbiamo decantato in apertura. Come in ogni racconto che si rispetti, l’eroe deve superare almeno una difficoltà per realizzarsi.
Dixie aveva vinto, Dixie vincerà, ma prima dovette assistere, quasi inerme, alla retrocessione dell’Everton. Del suo Everton. L’eroe a questo punto si erge sugli altri e, da solo, risolve la situazione. A suon di reti riporterà immediamente i Toffees in First Division e, da neopromossi, vinceranno anche il campionato successivo. Ovviamente con Dixie protagonista.
Chiuderà l’esperienza all’Everton con due titoli, due Charity Shield, una FA Cup (1933, con goal nel 3-0 in finale contro il City). 349 goal in 399 partite, 377 in 431 se si contano tutte le competizioni.
Giocò ancora, dopo i Toffees. Dapprima al Notts County, poi allo Sligo Rovers in Irlanda e infine all’Hurst, oggi Ashton United.
Chiusa la carriera, aprì un pub, il Dublin Packet, a Chester. E fece anche altri lavori, umili, se è giusto chiamarli così. Come si conviene ad un eroe buono, mai ammonito in carriera.
All’Everton, guadagnava 8 sterline a settimana d’inverno, 6 d’estate. “When i was playing i couldn’t afford a pair of boots“, dirà a George Best. Ma non ne fece mai un motivo di lamento.
Un giorno gli chiesero se il record di 60 goal in campionato sarebbe mai stato battuto. “Certo”, rispose, “ma solo un uomo ce la farà. Ed è quello che cammina sull’acqua”.
Il calcio gli mancava, ma la salute problematica lo tenne spesso lontano da Goodison Park. Nel Novembre del 1976 gli amputarono la gamba destra in seguito ad una trombosi. Un duro colpo.
Forse sentendo avvicinarsi l’inesorabile fine, Dixie decise il 1 Marzo del 1980 di tornare a Goodison, perchè gli mancavano i suoi tifosi, il suo Everton. Non una partita come le altre, ma il Merseyside Derby. Everton-Liverpool.
Il destino è lo scrittore più grande, assurdo, imprevedibile che esista. Perchè Dixie, leggenda dell’Everton, morirà lì, a Goodison Park, pochi istanti dopo il fischio finale di un derby contro il Liverpool.
Un vecchio cavaliere che torna per un’ultima volta sul campo di battaglia, persa (vinse il Liverpool, 2-1) e lì saluta per sempre la vita.
O meglio ancora un amante che muore guardando negli occhi la sua amata, che lo vede spegnersi a sua volta. La tragedia romantica, sublimata.
Siamo certi che, se avesse potuto scegliere, Dixie avrebbe scelto così. E forse per questo, quel giorno, insistette per andare a Goodison, o almeno, è in quache modo bello pensare che sia così.
Il ricordo più suggestivo, tra i tanti, venne da un “nemico”, Bill Shankly. Nemico, tra virgolette s’intende, perchè il grande allenatore scozzese plasmò il suo Liverpool anche in funzione anti-Everton, che d’altronde fino agli anni ’60 dominava la scena nel Merseyside. “Ci sono due squadre a Liverpool. Il Liverpool e il Liverpool riserve”. Uno spirito che mantenne anche il giorno del funerale, quando disse “lo so che è un’occasione triste, ma son sicuro che Dixie sarebbe estasiato nel sapere che anche da morto riesce a radunare più gente che l’Everton il Sabato pomeriggio”.
Una caduta di stile pensò qualcuno, un omaggio sincero crediamo noi, condito da quell’ironia tipica dell’uomo da Glenbuck. Ma Shankly disse anche “He belongs to the company of the supremely great, like Beethoven, Shakespeare and Rembrandt“. Tre artisti, in tre diverse categorie. Come dire: la quarta, quella del calcio, è appannaggio di Dixie.
Oggi, una statua ne commemora le gesta fuori Goodison Park. C’è scritto “the most lethal header in the history of the game“, giusto per rimarcare la specialità della casa; oltre al record, imbattibile, di 60 goal in un campionato, e al ricordo della morte avvenuta in quel luogo.
Dopo il funerale in Laird Street, la strada che lo vide nascere e crescere, le ceneri vennero deposte sul prato di Goodison Park. Perchè, onestamente, nessun altro luogo avrebbe potuto ospitarle. E quale migliore conclusione della storia, a cui abbiamo volutamente dato un’impronta quasi mitica, pensare che, ancora oggi, lo spirito leggendario di Dixie aleggi su Goodison, a infondere coraggio e passione ai giocatori che, negli anni, indossarono e indosseranno la casacca blu dei Toffees?
Decisamente sì, ci piace pensare che sia così.

Come forse avete notato, non abbiamo mai citato il cognome di Dixie. Perchè è superfluo, perchè gli eroi non hanno un cognome. E perchè, soprattutto, difficilmente rivedremo un altro così.
William Ralph “Dixie” Dean, 1907-1980.

Dixie_Dean_Monument

Duri come Iron

464px-Scunthorpe_United_FC_logo.svg

Scunthorpe United Football Club
Anno di fondazione: 1899
Nickname: the Iron
Stadio: Glanford Park, Scunthorpe
Capacità: 9.183

Perchè poi uno debba venire a Scunthorpe non si sa. Classica cittadina che potrebbe prendere in prestito l’insegna di benvenuto frutto della genialità di Matt Groening, il papà dei Simpsons: “Welcome to Scunthorpe. We were born here, what’s your excuse?”. Li era Winnipeg, ma il concetto rimane quello così come rimane la domanda: perchè siamo a Scunthorpe? Perchè semplicemente siamo troppo innamorati del calcio inglese per lasciarci sfuggire l’occasione di rovistare nella periferia calcistica albionica, lontana dai lustrini e dal glamour internazionale della Premier ma costellata di realtà che trasudano storia, tradizione e senso di appartenenza. Per cui, eccoci qui. A Scunthorpe un cartello di benvenuto c’è veramente e recita: “Welcome to Scunthorpe, Industrial Garden Town of North Lincolnshire”. Sicuramente industrial, sicuramente town, di garden in realtà se ne percepisce un filo meno la presenza tant’è che qualche bontempone si è divertito a fare una foto a suddetto cartello, annerito dal fumo, con sullo sfondo le ciminiere delle locali acciaierie. Ed eccolo, l’acciaio. Volente o nolente è l’anima della città dal giorno in cui Rowland Winn si accorse che nei terreni di proprietà del padre si poteva estrarre l’ematite, ovvero il minerale del ferro. Era il 1859, qualcuno portò il carbone che in Inghilterra abbondava e le acciaierie cominciarono a spuntare come funghi fino a far diventare Scunthorpe la capitale inglese dell’acciaio, il che comporta il rovescio della medaglia, ovvero la nomea di città non esattamente appetibile al turista. A meno che non si capiti da queste parti per lo Scunthorpe United, come nel nostro caso.

GlandfordPark3Glanford Park sorge poco fuori città, ad accogliervi trovate un arco metallico (ma c’erano dubbi?) che vi dà il benvenuto nel primo dei tanti stadi nuovi che sorgono in Inghilterra. Correva l’anno 1988, Hillsborough doveva ancora arrivare ma l’incendio di Bradford aveva già avuto il suo impatto sull’opinione pubblica e sul legislatore britannico, che come forse avrete intuito è un filo più attento ed equilibrato rispetto al nostro. Lo Scunthorpe, da sempre di casa all’Old Showground, nella difficoltà di adeguare l’impianto alle nuove norme e nella prospettiva di cedere i terreni a una catena di supermercati, optò per il trasferimento e se Dio vuole Glanford Park è distante anni luce dai nuovi impianti fatti con lo stampino, anzi conserva ancora i pali di sostegno alle tribune che danno quel tocco antico che non guasta mai. Piccolo, perchè è piccolo, 9 mila spettatori con 5mila di media nell’ultimo anno in Championship, ma grande quanto basta per lo United e i suoi tifosi, espressione di una comunità di 70mila anime equidistante da Doncaster, Hull e Grimsby. Naturalmente anche l’Old Showground era bello, quel romanticismo old, la tribuna principale con le sponsorizzazioni quasi sempre legate all’acciaio, tra cui il “buy British Scunthorpe Steel” che conserva un certo fascino inspiegabile ancora oggi. E poi era comunque la casa dello Scunthorpe fin dalla sua nascita, il che dovrebbe conferire – e conferisce – il massimo del fascino possibile.

Quando le ruspe hanno demolito l’Old Showground un pezzo di storia dello United se ne è quindi andato. Era cominciata nel lontano 1899, quando il Brumby Hall (Brumby è uno dei cinque sobborghi che nel 1936 han dato vita alla città odierna. Gli altri quattro sono Scunthorpe, Frodingham, Crosby e Ashby) unì le forze a un club locale il cui nome è perso nelle nebbie del tempo. Il calcio nella cittadina dell’acciaio era già arrivato, ma come spesso accadeva non tutte le nuove società sopravvivevano all’entusiasmo iniziale. Ci provarono appunto con lo Scunthorpe United e ci riuscirono, ci proverà il North Lindsey fondato nel 1902 e non ci riuscì, tanto che nel 1910 a sua volta si unirà allo United dando vita allo Scunthorpe & Lindsey United. Il nuovo club passò nel 1912 al professionismo contestualmente all’ingresso in Midland League, che nella testa dei dirigenti doveva essere solo una tappa intermedia verso la Football League. I piani del club non trovarono riscontri però in una realtà che vedrà lo Scunthorpe tentare inutilmente l’ingresso in the League per anni, anni e anni ancora. Vi riuscirà solo nel 1950, quando la Football League decise per l’espansione. La Midland League a quel punto rimase come buon ripiego e i Nuts, anzi i Knuts la vinceranno due volte (1926/27, 1938/39). Non Iron, Knuts, con una K comparsa da non si sa dove ma sostanzialmente il significato è quello, “noci”: questo era in quegli anni il soprannome del club. L’origine la si deve al reverendo Cryspin Rust, che nel premiare il club al Frodingham Charity Trophy definì i giocatori “tough nuts to crack”, noci difficili da rompere. Duri. Come l’acciaio, o se preferite il ferro che con il tempo è diventato il soprannome ufficiale del club. Iron compare anche nel simbolo, uno stemma che uno potrebbe pensare essere stato scippato all’arte sovietica e copiato pari pari nel North Lincolnshire, con la mano chiusa a pugno nel brandire la sbarra d’acciaio che sembra incitare il proletariato alla rivoluzione.

p11806132Il quesito che ci siamo posti inizialmente è: perchè uno dovrebbe venire a Scunthorpe? Una domanda che se fai l’osservatore tendi a non porti, e infatti non se la pose nemmeno Geoff Twentyman. Mr Twentyman lavorava per il Liverpool ed era uno a cui Bill Shankly dava più ascolto che ad altri. Quando il nostro fece presente che nello Scunthorpe United giocava un ragazzotto dal sicuro avvenire, il grande Bill si fidò. Per 35.000 sterline concluse l’affare. D’altronde quattro anni prima dallo Scunthorpe aveva già prelevato il suo portiere, Ray Clemence: perchè non riprovarci? Ci riprovò, e funzionò anche stavolta, perchè quel ragazzotto si chiamava Kevin Keegan e verrà incoronato re ad Anfield. Clemence e Keegan. Due ragazzi cresciuti con lo Scunthorpe, vero, ma rimasti in prima squadra per troppo poco tempo per poterli annoverare tra le leggende del club. Due stagioni Ray, tre Kevin. E d’altronde una squadra dalla scorza dura come Iron è giusto che tra i suoi eroi abbia Jack Brownsword, difensore definito da Sir Stanley Matthews “the best defender in the Second Division”. Nel natio Yorkshire Jack faceva il minatore nelle miniere di carbone e con la maglia claret & blue giocherà per 18 stagioni. Gli attaccanti avversari? Una passeggiata rispetto ai turni in miniera. Lui, sì, duro come l’acciaio. O Jack Haigh, condottiero di mille battaglie, o ancora Barrie Thomas, eccellente attaccante la cui cessione a metà della stagione 1962 metterà fine al sogno First Division per lo Scunthorpe, che giungerà quarto per quello che rimane il miglior piazzamento nella storia del club. Questi giocatori non ebbero tutti il privilegio di indossare la maglia claret & blue del club, stile Aston Villa, perchè questa dal 1959 in contemporanea con il cambio di nome (sparì il “Lindsey”) divenne prima bianca con  risvolti blu, poi interamente rossa tant’è che ironia della sorte Kevin Keegan passò da un club con la divisa interamente rossa ai Reds di Liverpool. Nel 1982 qualcuno ebbe l’intuizione e furono reintrodotti i colori originari, peraltro nella splendida variante a strisce verticali.

Detto dei giocatori, qui ultimamente gli eroi sono però gli allenatori. Il primo è Brian Laws, come spesso accade ex giocatore del club e reduce da un’esperienza da manager con i vicini e mai amati del Grimsby Town, passata alla storia più che altro per il lancio di un piatto a Ivano Bonetti. Laws, in sella dal 1997, portò lo Scunthorpe a Wembley per la prima volta dopo 7 anni, solo che a differenza del precedente questa volta fu un trionfo per i clarets & blue, un trionfo che riapriva le porte della Second Division, la terza serie. Durò poco, ma qualche stagione più tardi gli uomini di Laws, con il secondo posto nel 2005, riguadagnorono sul campo la terza serie, diventata nel frattempo League One. Questo dopo che nel 2004 Laws aveva lasciato per tre settimane il club, peraltro sull’orlo della Conference: tornerà e lo United finirà terzultimo e salvo. Tornato in terza serie, stavolta lo Scunny non si fermò, nonostante le sirene provenienti da Hillsborough che attirarono Brian Laws, il quale fatti i bagagli per la vicina Sheffield salutò Glanford Park. A quel punto le chiavi della squadra vennero lasciate in mano al…fisioterapista. Ed ecco il secondo manager che ha fatto la storia recente del club. “Who needs Mourinho, we’ve got our physio”, il coro che si alzava dagli spalti. Quel fisioterapista si chiamava, e si chiama, Nigel Adkins e porterà per ben due volte lo Scunthorpe in Championship, oltre che due volte a Wembley per un Football League Trophy perso contro il Luton Town e una finale di playoff vinta (entrambe nello stesso anno). Adkins lascerà però il club per andare ad allenare il Southampton e pian piano si tornerà in League Two, con l’ultima retrocessione avvenuta nel 2012/13.

soccer-football-league-division-four-scunthorpe-unitedLa stazione di Scunthorpe è come Glanford Park: piccola. Arrivando in treno da Doncaster, si può già scorgere sulla sinistra lo stadio, visto che questi sorge alla periferia ovest della città. Dalla stazione situata in centro a Glanford Park la strada è quindi piuttosto lunga se la si vuole fare a piedi, ma come sempre ne vale la pena. Una realtà per conoscerla va respirata a pieni polmoni, metaforicamente magari perchè l’aria di Scunthorpe non è proprio la più salutare del Regno – ma se non altro le acciaierie sorgono dalla parte opposta della città rispetto allo stadio. Ecco, non proprio la città turistica dei vostri sogni. Ma se si ama il calcio inglese, una tappa a Scunthorpe la si può fare tranquillamente. Per vedere questa squadra dal guscio duro come quello delle noci, o dura come l’acciaio, se preferite.

We only sing when we’re fishing! La storia del Grimsby Town

Grimsby_Town_logo

Grimsby Town Football Club
Anno di fondazione: 1878
Nickname: the Mariners
Stadio: Blundell Park, Cleethorpes
Capacità: 9.546

Pescherecci, gabbiani, magazzini, docks. L’odore del pesce appena pescato, l’odore del pesce lavorato, magari affumicato, specialità locale certificata dall’Unione Europea. E poi ancora gabbiani, che volano intorno ai pescherecci mentre questi rientrano in porto. Non ci sono molte alternative a Grimsby, da sempre. E d’altronde siamo nella capitale della pesca inglese, 70% della produzione nazionale, alla foce dell’Humber, il freddo Mare del Nord che si estende di fronte: cosa aspettarsi di diverso? C’è la Dock Tower, che garantiva l’energia idraulica per aprire i cancelli dei docks, appunto. Garantiva, perchè dal 1892 la torre rimane solo come simbolo, e si erge maestosa con i suoi mattoncini rossi sul porto, e la sua sagoma, in lontananza, dà un senso di sicurezza alla città. 87.000 abitanti che tra pesce e gabbiani hanno una passione a cui dedicarsi al Sabato: il Grimsby Town Football Club, l’orgoglio cittadino, nello stemma il peschereccio stilizzato e i pesci. Le radici non si rinnegano, mai. E perchè farlo poi? C’è solo da esserne fieri di quel retaggio marinesco. La casa è Blundell Park e Blundell Park, per la verità, non sorge a Grimsby, ma nella vicina Cleethorpes, motivo per cui gli avversari rivolgono ai Grimbarians, con ironia, la frase: “you play away every saturday“. Ma poco importa.

grimsby-docks-1040x387Qui motivi di cui essere orgogliosi ce ne sono, Cleethorpes o no. Innanzitutto, con buona pace di Lincoln City, Scunthorpe United etc, i mariners (questo il nickname della squadra, ma c’erano dubbi?) sono la squadra più vincente del Lincolnshire; da qui sono anche transitati grandi nomi, su tutti tal Bill Shankly di cui avrete sentito parlare; da qui un anno sono scesi due volte a Wembley, ritornando nel nord con due trofei in valigia; ma soprattutto sono l’unica squadra della contea ad aver disputato la massima serie del campionato inglese. Scusate se è poco. Tutto ciò ha un inizio, ovviamente. 1878, piena epoca vittoriana, il calcio si sta diffondendo a macchia d’olio e arriva anche sulla costa dell’Humberside. Vi arriva una sera di tarda estate del 1878, quando al Wellington Arms di Freeman Street un raduno di cittadini interessati a quel che diventerà the beautiful game da vita al Grimsby Pelham. A quel raduno vi partecipò anche una rappresentanza del Worsley Cricket Club, preoccupati per l’inverno alle porte che significava niente cricket, e il calcio sembrava essere un divertente diversivo. Perchè Pelham? Pelham era il nome della famiglia che spadroneggiava in zona in quanto a terreni e proprietà, anche noti, anzi soprattutto noti come Conti di Yarborough. Conti o non Conti, il nome non ebbe successo, e come dice la Fanzine dei tifosi (COD almighty, per chi fosse interessato) “realising that “We are Pelham” would be a very silly chant indeed, the club discards its original suffix and adopts the name Grimsby Town“. Era il 1879. Humour del nord-est, ma evidentemente il nome nobiliare non piaceva a una città di pescatori che si alzavano in piena notte e Dio solo sa quando – e se – tornavano a casa.

Clee Park, Cleethorpes. Il primo campo, situato tra la strada per Grimsby e il mare. Cleethorpes entrava da subito nel destino del club, semplicemente perchè disponeva di terreni usufruibili ai fini sportivi. Da Clee Park il Grimsby Town se ne andò nel 1889 quando il contratto d’affitto scadde, e passò una decina d’anni a Grimsby, ad Abbey Park, gli unici della sua storia, prima di tornare a Cleethorpes: Blundell Park stavolta, e non se ne andrà mai più. Poche miglie di distanza da Clee Park e soprattutto dal mare, anche perchè il Grimsby Town con uno stadio nell’entroterra non sarebbe degno di quel simbolo cucito al petto. Dal punto di vista sportivo si tentò l’ingresso in Football League, ripiegando poi sulla Football Alliance; quando questa venne inglobata da The League, il Grimsby si trovò ad essere un membro fondatore della Second Division. Era il 1892. Qualche anno prima il Preston North End, sì, quel Preston North End, era arrivato sulla costa a giocare una partita di FA Cup e a Clee Park, in quella che fu l’ultima partita per l’impianto, si presentarono in 8.000! Ben oltre le aspettative del club, che evidentemente era già entrato nel cuore della città. Il Grimsby nel giro di poco tempo si ritrovò anche in Division One, ad inizio ‘900: momento magico che non durò a lungo, e da lì a qualche anno dovette chiedere la ri-elezione in Football League perchè la stagione l’aveva chiusa dalla parte sbagliata della classifica di Division Two. Ri-elezione negata e fu Midland League. Oddio, niente drammi: i fishermen, come erano chiamati all’epoca – ed è un peccato non sia più quello il nickname – vinsero in carrozza il campionato e la Football League li riaccolse a braccia aperte. A Grimsby, come ad Hull, si giocava anche a Natale: erano gli unici col permesso ufficiale della Federazione, perchè la pesca non dava possibilità di riposarsi e il Boxing Day i pescherecci erano già al largo delle coste inglesi; col tempo il pesce si è cominciato a importarlo e i pescherecci sono rimasti ormeggiati in porto, e la tradizione è sparita. Altri tempi.GrimsbyUn po’ di altalena tra Division Two, One e occasionalmente Three (north), poi improvvisamente il quinto posto nella massima serie, il miglior risultato di sempre, nel 1935; e prima della sciagurata invasione tedesca della Polonia con tutto ciò che ne seguì, due-semifinali-due di FA Cup, 1936 contro l’Arsenal a Leeds Road e 1939, contro il Wolverhampton. In campo bomber Pat Glover, implacabile gallese che segnerà 180 reti con il club, sugli spalti nella semifinale del 1939 ad Old Trafford 76.962 spettatori, che resta tuttoggi un record per il Theater of Dreams. Come dicono da queste parti, “74 years later Manchester United are increasingly desperate to stick in a few extra seats and end their embarrassment”. Il Grimsby Town perderà entrambe quelle semifinali e il treno per la storia non ripasserà più. Anzi, la guerra terminò e due stagioni dopo i Mariners dissero addio alla First Division, in cui non faranno mai più ritorno. Finirono anche in Division Three e lì li prese in consegna William “Bill” Shankly, che spenderà sempre parole di entusiastico elogio per quella squadra nonostante l’obbiettivo promozione fallì sempre, anche di poco – tipo 3 punti dagli odiati cugini del Lincoln City: “pound for pound, and class for class, the best football team I have seen in England since the war. In the league they were in they played football nobody else could play. Everything was measured, planned and perfected and you could not wish to see more entertaining football”. Se ne andrà nel 1954 a Workington, per avvicinarsi alla sua Scozia e per lasciare una dirigenza che non sembrava disposta ad assecondarlo.

Ma da queste parti non c’è spazio per affezionarsi a personaggi di quella levatura. Qui si amano i John McDermott, terzino capitato quasi casualmente a Grimsby nel 1987 e rimastovi per venti stagioni consecutive, disputando qualcosa come 754 partite con la maglia bianconera indosso. SetteCinqueQuattro. Qui si impazzisce per le sfide contro Lincoln City e Scunthorpe, odiatissimi rivali al pari dell’Hull City, diversa contea ma stessa vocazione marinara, e non fatevi ingannare dalla recente ascesa dei Tigers perchè, qui, the Humberside team è e sempre sarà il Grimsby Town. Qui si adora Alan Buckley, lui sì il Manager con la maiuscola, altro che Shankly o Lawrie McMenemy, uno che se ne andrà da Grimsby in tempo per vincere una FA Cup a Southampton. Alan Buckley, colui che guidò due volte i mariners nel tempio di Wembley e ne tornò vincitore: era il 1997/98, quel Grimsby Town vinse Football League Trophy e finale dei playoff di Division Two. In 35.000 scesero a Londra, andata e ritorno e ancora andata e ritorno. La pesca poteva aspettare e aspetterà, c’era da celebrare il Grimbarians Pride, l’orgoglio di appartanere a questa città, quelli che da decenni vivono all’ombra della Dock Tower a guardare il mare, perchè anche se si pesca decisamente meno che un tempo una qualche eredità genetica deve essere rimasta visto che ancora oggi si scruta l’orizzonte in cerca di presagi, come se si dovesse partire il giorno seguente. Il più recente viaggio a Wembley, in FA Trophy, non è andato altrettanto bene, ma le sciarpe bianconere ancora quel giorno sventolavano fiere e festose, intonando il “we only sing when we’re fishing” che è coro di genialità pura. Per non parlare del pesce gonfiabile, Harry Haddock, vero must per ogni tifoso Grimsby che si rispetti.

43-wembley244-484147_478x359Già, bianconere. E con il simbolo, il peschereccio e i tre pesci; fino agli anni ’70 c’erano tre pescherecci, ma la sostanza non cambia, è ancora la comunità che si esprime tramite la squadra. Ma il bianco-nero non fu sempre il colore del club. Al principio fu il bianco-blu, righe sottili e orizzontali: i colori della famiglia Pelham. Via il nome, via i colori: si passa al chocolate & blue, e per il marrone si impazziva a quei tempi per motivi che sinceramente ci sfuggono: pare fossero i colori della locale abbazia. Tant’è che da lì a poco via anche il cioccolato e l’azzuro: maglia completamente rosa salmone, e qualche spiritosone si azzarderà a ipotizzare che fosse un omaggio alla locale industria del pesce affumicato. Pare che invece fosse un cambio dettato solo dalla ricerca della fortuna, e il salmone era un altro colore in voga all’epoca: da questo punto di vista, per fortuna i tempi sono cambiati. Prima che nel 1911 le attuali divise vedessero la luce, comparve anche il rosso che sarà destinato a rimanere come “terzo” colore (calzettoni e risvolti), solo che comparve su una maglia totalmente bianca. Come detto finalmente nel 1911 arrivò il bianco-nero e non abbandonò mai più i mariners.

E degli sponsor non ne parliamo? Direte voi giustamente, perchè parlare degli sponsor? Perchè ci dicono molto del club e della città, se ancora non si fosse capito. Il primo marchio a comparire sulle maglie bianconere fu la Findus, nel 1979. Sì, quella dei bastoncini, che in UK ha ovviamente sede a Grimsby e che oggi sponsorizza la tribuna principale di Blundell Park. Su questo mondo c’è chi ha il season-ticket per la Findus Stand. Il gruppo svedese è anche proprietario della Young’s, l’attuale sponsor, che naturalmente si occupa di pesce surgelato: 3.000 dipendenti, giusto per mettere in chiaro le cose, praticamente 1/3 della capacità di Blundell Park. Sede sociale? Dai, non scherziamo.

Da qui è transitato anche un italiano, Ivano Bonetti, passato in poco meno di una stagione da idolo dei tifosi a ritrovarsi con uno zigomo fratturato da un piatto tiratogli dal manager Brian Laws, che come potete intuire non fu felicissimo della prestazione dell’Ivano nostro in un Luton Town – Grimsby. Fece scalpore quel trasferimento, perchè qui non si è abituati a giocatori stranieri, figuriamoci se arrivavano dalla Serie A italiana e avevano collezionato presenze in Nazionale. Impensabile. Nel 2001 l’ultimo, grande sussulto di gloria. League Cup, Anfield. Grimsby in seconda divisione, Liverpool beh, il Liverpool, reduce da una stagione in cui vinse praticamente ogni coppa disputata. Partita ai supplementari, segna McAllister su rigore ma il Town la pareggia e l’away end, stracolma di tifosi giunti dall’Humberside, esplode al goal di Jevons. Esplode. Giornata Indimenticabile, che stona con l’attualità. Oggi infatti fa male vedere i mariners in non-league. Avevano già rischiato il crollo nel 2009 e lo evitarono al pelo, salvo poi salutare la Football League la stagione successiva e si ritrovarsi dopo un secolo in Conference National. Ma il pubblico non abbandona il Grimsby, anzi arriva a Cleethorpes numeroso specie per un incontro di vertice, o un Lincolnshire Derby, come quello disputato di recente contro lo Scunthorpe in FA Cup o come quelli contro gli Imps, impaludati come il Town in non-league. I quasi 4.000 di Blundell Park rappresentano d’altronde la seconda media spettatori di non-league, dietro solo al Luton Town. Away every saturday? Anche no. Sono sempre tutti lì. Con quello sguardo fisso a scrutare l’orizzonte, lasciatogli in eredità dagli avi pescatori, in cerca tra le onde di qualche segno premonitore per il loro Grimsby Town.

grimsby-fans-fa-trophy-620.ashx

William McGregor e la nascita della Football League

Ci sono momenti in cui si scrive la storia, quella con la S maiuscola perchè influirà in modo decisivo sulla vita delle generazioni successive. Generalmente, non si è consapevoli di farlo, a meno rari casi di lucida follia visionaria: un Churchill, quando promise “lacrime sudore e sangue” ai suoi compatrioti, immaginiamo sapesse di vergare a voce pagine di storia dell’umanità. Onestamente ci riesce difficile invece immaginare che sapesse cosa avrebbe lasciato ai posteri tal William McGregor, per gli amici Willy, per tutti il padre della Football League, a sua volta madre dei campionati di calcio per club. Oh, il Willy non cominciò esattamente col calcio. Arrivò a Birmingham da Braco, Pertishire, 515 sperdute anime nella Scozia centrale, bella e tutto ma non esattamente un posto di villeggiatura, a una delle città principali della rivoluzione industriale, neanche questa confusa mai con Sharm-el-Sheik ma con qualche cristiano in più rispetto alla natia contea, molto fumo in più ma soprattutto decisamente molte palanche in più. Qui mise in piedi un’attività di drappiere, ovvero commercio di tessuti, nel sobborgo di Aston, il che qualcosina dovrebbe lasciarvi immaginare sulle future relazioni calcistiche del nostro. Ecco, il calcio. La Scozia centrale era selvaggia e inospitale ma l’arte del football arrivò anche a Braco e qui, un giorno, il buon McGregor restò entusiasta di fronte a quelle partite ottocentesche che ci tramandono i racconti del tempo, gente col cappello in testa e i baffoni e porte senza traversa. Mise la passione per l’arte pedatoria in valigia con i vestiti e la traslocò con tutto il resto a Birmingham. Anno di grazia 1870. Qui venne a contatto con altri scozzesi, che nel frattempo avevano dato vita a una squadra locale, il Calthorpe di cui Willy divenne ben presto sostenitore e rivenditore ufficiale di maglie presso il suo negozio, immaginiamo procurandosi i tessuti necessari che in fondo era il suo vero lavoro. L’ormai mitica a questo punto drapperia divenne così una specie di bar sport, ritrovo per distinti signori appassionati di calcio che avrebbero anche cristonato dietro alle scelte dell’allenatore, se non fosse per il piccolo intoppo che all’epoca non esisteva l’allenatore. Quisquiglie.

La svolta della nostra storia è il 1877. In un modo o nell’altro, il nome William McGregor divenne famoso nell’ambiente, specie nei dintorni di Aston. Tre anni prima nella cara vecchia Handsworth quattro ragazzotti stufi delle pause invernali dettate dal cricket avevano preso carta e penna e fondato l’Aston Villa Football Club. Quando ci fu bisogno di dirigenti, i quattro andarono a bussare alla porta del negozio di McGregor che, vuoi per la vicinanza del nuovo club con, guess what, ovviamente la drapperia, vuoi per la forte componente scozzese – again – disse “yes“, entrando a far parte del comitato del club. Oddio, comitato. Willy si trovò anche ad arbitrare alcune partite, il che denota da un lato il romanticismo degli albori (immaginatevi vedere oggi una cosa del genere, un dirigente ad arbitrare, roba da Scherzi a parte), dall’altro l’evidente malattia di McGregor verso questo giochino che a noi piace, ma che a lui tanto schifo evidentemente non faceva. Ora, la passione conta ma fino a un certo punto, ovvero il momento in cui entra in gioco l’abilità. E il nostro si dimostrò incredibilmente abile nell’arte di far di conto, il che lo porterà a scalare posizioni all’interno del club, fino a diventarne presidente e poi membro permanente della dirigenza. Nel 1880, l’Aston Villa di McGregor vinse l’FA Cup. Il calcio però si trovò giocoforza di fronte a un bivio in quegli anni, un bivio chiamato professionismo. Da un lato i club del nord, più ricchi, che facevano ampio ricorso a mezzucci più o meno nascosti per pagare i giocatori e che spingevano per il professionismo, visto che l’FA non li prendeva bene i tentativi di aggirare le regole e ci andava giù di multe, dall’altro i club del sud, strenui oppositori di tutto ciò in nome del calcio amatoriale che, fino ad allora, era appunto la regola. Quando alcuni club del Lancashire minacciarono la creazione di una loro British Football Association in una sorta di guerra di secessione versione anglocalcistica, a Londra la questione venne posta con forza e lo stesso William partecipò all’incontro, perorando la causa del nord. Era il 20 Luglio 1885, il nord vinse anche questa versione della guerra, il professionismo divenne legale e agli occhi dei dirigenti si pose il successivo problema: come rendere il calcio fonte di profitto.

Fino a quel giorno il calcio era sostanzialmente una serie di amichevoli che suscitavano discreto interesse sì, ma che ora si trovavano a competere con la FA Cup e le coppe locali alle quali i club davano, con l’introduzione del professionismo, la precedenza. Cosa comportò tutto ciò? Facile. Molti club si trovavano improvvisamente ad attraversare lunghi periodi senza partite da disputare per mancanza di avversari, impegnati su altri fronti. Questa fu la molla che fece scattare nella testa del nostro drappiere l’ideona: ci mettiamo d’accordo, che so, dieci-dodici club ad inizio stagione, buttiamo giù un calendario di partite casalinghe e in trasferta alternate e a fine anno vediamo chi fa più punti. Eh? Che ne dite ragazzi? Banalmente, avvenne questo; il tono della lettera era un po’ diverso, e la trovate in fondo al post nella sua versione originale, che storicamente non avrà la stessa importanza ma per noi ha il valore della dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti o la Stele di Rosetta. L’ispirazione pare gli fosse venuta dal County Cricket Championship, se vogliamo credere alle sue parole; altri citano la lega di baseball USA o le regole proposte per un campionato di college football statunitense, la cui eco giunse in Inghilterra nel 1887. Torniamo alla lettera. McGregor propose anche una data, 23 Marzo 1888, il giorno prima della finale di FA Cup a Londra, Preston North End vs West Bromwich Albion, nemmeno troppo casualmente due dei club a cui McGregor indirizzò la lettera. Gli altri: Blackburn Rovers, Bolton Wanderers e….Aston Villa, perchè da vero gentleman Willy si mise almeno apparentemente in una posizione terza rispetto al suo club. Direte voi giustamente: ne mancano sette! McGregor, con mossa di grandissima saggezza, scelse (perchè di fatto li scelse lui) solo cinque club compreso il suo, lasciando aperta la porta per una decisione collegiale con la frase “and would like to hear what other clubs you would suggest“. Sti benedetti other clubs li conosciamo tutti oggi: Accrington, Burnley, Derby County, Everton, Notts County, Stoke, Wolverhampton Wanderers. Lunga gloria.

Il 17 Aprile successivo, a Manchester, vennero messi a punto i dettagli, nome compreso. The Football League non era la scelta di McGregor, che avrebbe preferito “Association Football Union”, cassato senza attenuanti in quanto troppo similare al Rugby. Non vennero invece stabiliti immediatamente i punti da attribuire in caso di vittoria, cosa che si fece (e che rimarrà per moltissimi anni, 2 per ogni vittora, 1 per il pareggio) solo a stagione iniziata, e per loro fortuna che non esisteva un equivalente del Processo del Lunedì che in questa cosa ci avrebbe sguazzato discretamente. Tutto era pronto. Alea iacta est, avrebbe a questo punto detto Caio Giulio Cesare, perchè la creazione della Football League scatenò la reazione degli altri club esclusi. Iniziarono a proliferare leghe su leghe nel tentativo di imitare quella di McGregor (ne divenne, scelta quasi scontata, presidente) che, sebbene partorita con ancora intenti amichevoli (ci dividiamo i guadagni e così via) divenne una grandissima fonte di guadagno per i club, perchè il pubblico si entusiasmò alla formula quasi immediatamente. Dicevamo, le leghe rivali. Queste ebbero spesso vita breve, e alcune vennero assorbite dalla stessa Football League (è il caso della Football Alliance – 1889 -, che divenne sostanzialmente la Division Two nel 1892); in altri sopravvivono tuttoggi, come la Southern League (1894), declassata però a lega dilettantistica che ha dovuto negli anni fare i conti con la sorella maggiore (la creazione della Division Three). Altrove invece l’idea di McGregor servì alla creazione di campionati nazionali, come per la Scozia, che nel 1890 diede vita alla propria Scottish Football League, nonostante McGregor avesse lasciato aperta la porta ai club della sua Scozia (il nome English League venne bocciato anche per questo motivo) Ah, dimenticavamo. L’avventura della Football League cominciò benino: il primo campionato, 1888-89, regalò ai posteri la leggenda degli Invincibles del Preston North End. Spazio per altre leghe? Seh, ciao.

Oh, McGregor trovò anche il tempo per divenire membro permanente della Football Association, restare presidente della Football League fino al 1894 e divenirne membro a vita l’anno seguente, non mancano mai a un incontro finchè glielo permetterà la salute, mai, anche standosene in silenzio in disparte, alzando lo sguardo quel tanto che bastava per far capire cosa pensasse. E ci sarebbe anche da parlare di baseball in questa storia. Il baseball? Sissignori, in tutto ciò questo distinto signore scozzese dalla folta barba provò anche a dar vita a un movimento britannico della palla con le cuciture ma, data la scarsa inclinazione dei britannici a giocare sport non inventati da loro, l’impresa fallì.

Morirà a Birmingham nel 1911, e oggi una statua a Villa Park ne celebra l’importanza per il nostro amato sport. Ah. Nonostante tutti gli impegni calcistici di una certa importanza, la sua drapperia la porterà avanti con tenacia e orgoglio fino alla fine dei giorni. Thank you, Willy.

Un monumento del calcio. McGregor